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Digita una parola chiave, ad esempio, "causa di servizio"
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  • mirko schio

    Titolo
    "La vita è solo una. Va vissuta sempre"
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    Di Vittorio Pierobon per Il Gazzettino

     

    Lui è in sedia a rotelle da oltre 25 anni, il bandito che gli ha sparato, Marino Sacchetti di Silea, è libero, dopo aver scontato pochi anni di carcere. Mirko Schio ricorda tutto di quella tragica notte del 3 settembre 1995. Era di pattuglia a bordo di una volante della Polizia a Marghera, assieme a due colleghi. Età media meno di 24 anni. Ragazzi in prima linea. Vedono un’auto sospetta che li segue. Decidono di fermarla per un controllo. Schio e l’agente Silvio Busato scendono. Dalla vettura dei banditi balza fuori un uomo armato di mitraglietta. Spara all’impazzata. Schio cade colpito all’avambraccio e al fianco. Le pallottole trapassano milza e rene. Una si ferma contro la colonna vertebrale. Un terzo colpo è stato “parato” dalla fibbia della cintura che ha fatto da scudo. Anche l’altro agente è colpito al cuore, ma fortunatamente non in modo mortale. Incolume l’autista, Massimo Zago che dà l’allarme. I banditi fuggono. Poi si scoprirà che erano un commando della famigerata “Legione Brenno”, organizzazione paramilitare di destra che in quegli anni trafficava armi con la ex Jugoslavia. Progettavano attentati e colpi di Stato, ma erano criminali di bassa tacca, ancorché feroci e stupidi.

    IL RICORDO

    «È accaduto tutto in pochi secondi - ricorda Mirko - ho sentito una scossa elettrica e un forte dolore. Sono caduto al suolo. Da terra sono anche riuscito a sparare, ma non li ho colpiti». Racconta con serenità. Eppure quella notte gli ha stravolto l’esistenza, lasciandolo a 23 anni in sedia a rotelle. Ma lui non è un perdente. «La vita che abbiamo a disposizione è una sola, dobbiamo viverla al massimo. Sai cosa pensavo quella notte, quando mi sono risvegliato in un letto d’ospedale? Al mutuo da pagare! Avevo appena fatto un debito con la banca da 100 milioni per acquistare con Nicoletta, la mia fidanzata, un appartamento. Pensavo a come pagare il debito. E pensavo un’altra cosa che può far sorridere nella sua tragicità. Io avevo perso le gambe e quell’appartamento era al terzo piano senza ascensore!» Un carattere fortissimo, un combattente. La sua vita è un esempio, ci insegna che non ci si deve arrendere mai. Da una tragedia è rinato un altro uomo.

    IL NUOVO IMPEGNO

    Il poliziotto è diventato “l’avvocato” delle vittime del crimine e del dovere. Una categoria di persone poco considerate. Presto dimenticate: poliziotti, carabinieri, militari, ma anche civili caduti nell’adempimento del proprio dovere o vittime di attentati, attacchi terroristici. Ce ne sono tante vittime in Italia, oltre 7mila. Storie balzate in prima pagina, quando sono accadute, ma poi finite nell’oblio. Restano le vittime, se sopravvivono, o i loro familiari. Con tutti i problemi burocratici, legali, psicologici e umani che un fatto di sangue lascia in eredità. Gente che spesso non ha i mezzi o la preparazione per fronteggiare questa condizione. Lo Stato c’è, aiuta con pensioni, indennizzi e sussidi. Ma è una giungla di leggi, cavilli, avvocati, ricorsi. Nemmeno per i servitori dello Stato, caduti nell’adempimento del dovere, la legge è uguale per tutti. «Per esempio - chiarisce Schio - fino a pochi anni le pensioni delle vittime del terrorismo non erano esenti dall’Irpef, mentre quelle di chi ha un incidente sul lavoro sono esenti da molti anni. È stato l’allora sottosegretario Zanetti ad aiutarci ad equiparare il trattamento. Noi non cerchiamo privilegi, ma l’applicazione equa delle leggi».

    LA MISSIONE

    Schio, pochi anni dopo lo scontro a fuoco, ha fondato una onlus che è diventata il punto di riferimento per migliaia di persone in tutta Italia. Fervicredo, un acronimo che si può leggere in due modi: Feriti e Vittime della criminalità e del Dovere, oppure Fervidamente Credo nella solidarietà. «Abbiamo oltre 1400 iscritti in tutta Italia - spiega Schio che è presidente dell’associazione - Se le facessi un po’ di nomi tornerebbero immediatamente alla memoria fatti di cronaca molto noti. Ci sono vittime di attentati terroristici, come quello al Bataclan, familiari di persone uccise dalle Brigate Rosse, e ricordo la famiglia di Giuseppe Taliercio e la moglie del commissario Alfredo Albanese, caduti in missioni di pace all’estero, come Matteo Vanzan, vittime di Unabomber, della mala del Brenta, della banda della Uno bianca, della criminalità organizzata. E ancora vigili del fuoco, civili impegnati in operazioni di salvataggio, malati di tumore della Terra dei fuochi. Tanti iscritti, purtroppo, sono le vedove, oppure gli orfani delle vittime».

    LOTTA CIVILE

    Il quartier generale di Fervicredo è a Marghera, nel rione di Catene. Assieme a Schio c’è un gruppo di volontari, ex militari e civili, assistiti da professionisti (avvocati, commercialisti, psicologi) che aiutano gli associati. «In Italia le circolari contano più delle leggi. Ci sono tante incongruenze. I carcerati, quindi spesso i carnefici dei nostri associati, hanno diritto allo studio e possono anche laurearsi a spese dello Stato, mentre per i figli delle vittime, fino a poco tempo fa non c’erano nemmeno borse di studio. La legge spesso è in ritardo. Le mogli dei poliziotti caduti hanno diritto alla reversibilità, alle compagne, non essendo sposate, non spetta nulla. Noi cerchiano di ottenere il rispetto dei diritti. È paradossalmente ci troviamo a lottare contro lo Stato per il quale siamo caduti».

    IL GRAN RIFIUTO

    Lo Stato con Mirko Schio è stato sempre presente, come lui stesso riconosce, permettendogli di condurre una vita tranquilla, senza problemi economici. E lo ha anche premiato, insignendolo del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica. Un’onorificenza che questa volta ha accettato. Non fece altrettanto nel 1997, quando rifiutò la medaglia di bronzo al valore civile. Non contestava la medaglia ma “l’equo indennizzo” di 11 milioni di lire. «Avevo 25 anni, avevo perso la milza e un rene, ero condannato alla sedia a rotelle e lo Stato mi diceva che 11 milioni di lire potevano bastare. Poco più di 5 milioni a gamba. Mi sono sentito umiliato. Per questo ho detto no». Un gesto clamoroso che è servito ad aprire gli occhi al legislatore. La vita di un poliziotto, di un uomo che si sacrifica per lo Stato ha un valore incommensurabile. Non certo 6 mila euro scarsi. Parla con entusiasmo, carico di vitalità come traspare anche dal fisico possente e muscoloso. Un uomo forte in tutti i sensi, aiutato dalla moglie Nicoletta, la fidanzata che lo ha sostenuto quando il mondo gli è crollato addosso.

    LA FAMIGLIA

    «Una grande donna - dice con trasporto Mirko - che ha saputo accettare un marito che non può nemmeno buttare la spazzatura nel cassonetto, perché non arriva a tirare la leva. Fa sorridere ma per chi è in sedia a rotelle è tutto più complicato. Ho cercato di bilanciare dandomi da fare in cucina, ai fornelli me la cavo». Una bella famiglia con due figli gemelli, Nicola e Vanessa. «Ma non sembra che vogliano fare i poliziotti o i carabinieri». Una vita serena. La notte del 3 settembre, resta un ricordo. Mirko non ha sentimenti di vendetta. Lui si è dimostrato più forte dei banditi. Nella vita i perdenti sono loro. Ma se dovesse incontrare oggi il “legionario” Sacchetti che gira liberamente? Sorride, resta calmo. «Non lo so. Non immagino che reazione potrei avere. Spero si sia pentito. Però in questi anni nessuno della banda mi ha mandato segnali in tal senso. Io ho ripreso la mia vita e sono sereno e felice. Non credo che loro possano dire altrettanto».

    Vittorio Pierobon
    (vittorio.pierobon@libero.it)

     

     


    Ringraziamo Vittorio Pierobon e Il Gazzettino per averci concesso l’opportunità di condividere un estratto di questo lavoro. L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero de Il Gazzettino del 24/03/2021 ed è consultabile previo abbonamento sul sito della testata all'indirizzo: https://www.ilgazzettino.it/nordest/venezia/poliziotto_sedia_rotelle_mirko_schio_mestre-5852269.html

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Aveva 23 anni il poliziotto Mirko Schio quando rimase ferito in un agguato della famigerata Legione Brenno durante un giro di pattuglia a Marghera nel 1995. Da allora è in sedia a rotelle. Ha creato un’associazione per difendere le vittime del crimine
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  • Webinar sui suicidi in divisa

    Titolo
    Quali le strategie per la prevenzione dei suicidi nelle forze armate e di polizia?
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    L’incontro, moderato da Giovanni Alfano Segretario Regionale del Coisp Molise, si è svolto su piattaforma elettronica venerdì 23 aprile e ha visto gli autorevoli interventi qui di seguito riassunti:

     

    Il Segretario Nazionale del Coisp Domenico Pianese ha illustrato le importanti iniziative assunte dal Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza Prefetto Franco  Gabrielli nel corso del  2019: la costituzione dell’Osservatorio Permanente Interforze sul Fenomeno Suicidario fra gli appartenenti alle Forze di Polizia e l’istituzione del Tavolo per la Prevenzione e la Gestione delle Cause di Disagio per il personale della Polizia di Stato, che si sono rivelati due momenti  fondamentali nella direzione di imprimere una svolta nelle strategie di prevenzione. In questo secondo contesto l’Organizzazione Sindacale ha giocato un ruolo di forte stimolo e di proposta per revisionare alcuni articoli del Regolamento di Disciplina eccessivamente penalizzanti per il personale e responsabili di una impropria e controproducente  medicalizzazione del disagio.

    Giusy, la sorella di Domenico che si è tolto la vita sei anni fa all’interno del luogo di lavoro, ha offerto la sua commossa e commovente testimonianza in cui ha ricordato il momento della scoperta di quanto era avvenuto, evidenziando inoltre le conseguenze che i familiari vengono a  subire: sotto il profilo della gravità delle reazioni emotive di questo tipo di lutto, dello stigma da parte del  contesto ambientale, delle gravi ripercussioni economiche in assenza di qualunque forma di supporto dall’Amministrazione che rapidamente li ha completamente “dimenticati”. 

    L’ex Ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha ripercorso le iniziative assunte durante il suo mandato in cui si è molto occupata del fenomeno nell’ambito delle Forze Armate, oltre che delle gravi sequele psichiche del personale militare coinvolto in attacchi terroristici durante le missioni in teatri esteri. Ha sottolineato come le Organizzazioni Militari difettino oggi, forse più che in passato, di empatia e tendano a derubricare il suicidio come evento esclusivamente riconducibile alla vita privata, e come sia necessaria una maggiore formazione a livello dei ruoli superiori circa le problematiche psicologiche del personale. Pertanto l’attenzione a questo aspetto centrale della realtà organizzativa risulta “una questione di dignità e civiltà”.

    Graziano Lori, Presidente di Cerchio Blu, ha illustrato le attività di supporto psicologico offerte dalla sua Associazione, particolarmente rivolte al personale delle Polizie Locali, una vasta realtà del Comparto Sicurezza spesso trascurata e poco valorizzata. Ha inoltre presentato l’Osservatorio (ONSFO) creato nel 2014 per rilevare l’andamento del fenomeno suicidario nelle 4 forze di polizia a competenza generale e nell’insieme delle polizie locali, attraverso la collezione di informazioni provenienti da fonti extra-istituzionali successivamente validate. E’ stata inoltre sottolineata l’importanza di svolgere dei debriefing per il personale coinvolto in eventi critici di servizio (TSO di soggetti violenti, gravi incidenti stradali, suicidi di colleghi spesso effettuati nei luoghi di lavoro).  

    Luigi Lucchetti, Presidente Onorario di Aigesfos-Aps, ha interpretato il suo contributo offrendo risposte sintetiche ma puntuali, anche attraverso la presentazione di dati statistici, ai più pressanti interrogativi che ruotano intorno al fenomeno suicidario nelle Forze di Polizia: quanto sia numericamente rilevante, se sia in crescita, se alla base di esso vi sia sempre una patologia psichiatrica, quanto lo stress professionale sia coinvolto nel suo determinismo, se sia prevedibile, quali siano i fattori  che giocano sfavorevolmente ai fini della prevenzione, se sia più frequente tra le persone in divisa rispetto alla popolazione generale comparabile, se sia stata messa a fuoco una strategia organica per la sua prevenzione. Rispetto a quest’ultimo punto il relatore ha concluso in senso negativo, sottolineando in particolare come venga completamente trascurata la necessità di informare e formare su questo specifico rischio – la prima causa di morte violenta per gli operatori di polizia – gli allievi in sede di istruzione ed addestramento iniziale, fattore che depotenzia gravemente la prevenzione in quanto riduce le loro capacità di cogliere e segnalare gli indicatori di grave disagio psicologico da parte di un collega, elemento cruciale in un’ottica di rete per agire a tutela della sua vita, ed in qualche caso anche di quella dei familiari.

    IL VIDEO INTEGRALE DELL'EVENTO E' VISIBILE A QUESTO LINK: https://youtu.be/fiEms9gnQto

    Locandina del webinar organizzato dal Coisp sui suicidi in divisa
    LA LOCANDINA UFFICIALE DELL'EVENTO
    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Webinar sul fenomeno dei suicidi in divisa a cura del COISP Molise ed in collaborazione con AIGESFOS-APS
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  • numeri identificativi polizia servizio ordine pubblico

    Titolo
    Si torna a parlare di numeri identificativi per le Forze di polizia in servizio di ordine pubblico
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    Nella seduta n. 80 del 09 novembre 2018 è stata annunciata la presentazione, da parte dell’Onorevole Nicola Fratoianni (LEU), del disegno di legge A.C. 1351 avente per oggetto “Disposizioni in materia di identificazione del personale delle Forze di polizia in servizio di ordine pubblico”. 1

    Il testo ufficiale del disegno di legge, che ha natura ordinaria e risulta ancora da assegnare, non è ancora disponibile e quindi non si conosce. Ma Fratoianni non è nuovo al tema in quanto già nella scorsa legislatura aveva presentato un disegno di legge dal titolo analogo e che nei contenuti nulla fa pensare essere differente da quello appena presentato.

    La proposta di allora recitava:

    “…A tale fine si propone che l’operatore delle Forze di polizia che sia impiegato in servizi di ordine pubblico e non indossi l’uniforme prescritta sia tenuto a portare indumenti (giacche, pettorine o altro idoneo) che lo identifichino univocamente e a distanza come appartenente alle Forze dell’ordine, evitando, così, che si generino equivoci o confusioni che, nella tensione inevitabile di talune manifestazioni di piazza, potrebbero acuirla o, comunque, portare a gravi disordini. 
    Si propone, inoltre, che i funzionari responsabili indossino sempre e comunque la sciarpa tricolore, come previsto dal decreto del Ministro dell’interno 19 febbraio 1992, che determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato. Tale segno di riconoscimento (o un altro analogo previsto dai regolamenti, purché molto evidente anche a distanza) dovrà essere indossato anche sull’uniforme da parte di chi dirige le operazioni. 
    Infine, la presente proposta di legge rende obbligatoria l’identificazione del personale che indossa il casco protettivo mediante l’applicazione di contrassegni univoci sullo stesso.” Si propone, inoltre, che i funzionari responsabili indossino sempre e comunque la sciarpa tricolore, come previsto dal decreto del Ministro dell’interno 19 febbraio 1992, che determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato. Tale segno di riconoscimento (o un altro analogo previsto dai regolamenti, purché molto evidente anche a distanza) dovrà essere indossato anche sull’uniforme da parte di chi dirige le operazioni. 
    Infine, la presente proposta di legge rende obbligatoria l’identificazione del personale che indossa il casco protettivo mediante l’applicazione di contrassegni univoci sullo stesso.” 2

    Vedremo se nei prossimi giorni la nuova proposta di legge sarà differente o ricalcherà quella presentata nel 2015. In ogni caso è immaginabile prevedere che il contenuto non vedrebbe favorevole solo la sinistra di LEU. Già nei primi mesi del 2017 in Commissione Affari Costituzionali, durante la discussione sul decreto legge sulla sicurezza urbana, il M5S aveva presentato un emendamento che prevedeva che sulla divisa delle forze dell’ordine venisse “apposto un codice identificativo univoco di squadra” che fosse visibile “a distanza di almeno 15 metri e anche in condizioni di scarsa visibilità”.

    Non è stato il primo caso in cui il movimento ha manifestato il proprio interesse ad introdurre la norma come si può vedere da questo video del 2013:

    I sindacati di categoria non sono mai stati d’accordo con la necessità di identificazione del personale delle FF.OO. durante i servizi di ordine pubblico:

     

    “Numeri identificativi per ‘schedare i poliziotti? No grazie. Donne e uomini in divisa pagano già un tributo troppo alto perché la loro incolumità fisica e mentale venga messa ulteriormente a repentaglio dall’ennesimo bersaglio che si vuole piazzare sul loro petto. Dobbiamo constatare purtroppo come da Amnesty giungano sempre interventi che partono dal solito abominio concettuale: non è dagli operatori delle Forze dell’ordine che i cittadini devono essere difesi. I poliziotti non fanno altro se non stare al servizio dei cittadini, delle istituzioni, dello Stato. I poliziotti, come diciamo sempre, non sono buttafuori da strada, l’uso della forza è l’estrema ratio cui devono ricorrere per difendere se stessi e gli altri; e deve essere ben chiaro a tutti che aggredire un operatore delle Forze dell’ordine non si può, è un reato, e non può in alcun modo essere ammesso, tollerato, giustificato.  3

    • 1Atto Camera: 1351. Proposta di legge: FRATOIANNI e PALAZZOTTO: “Disposizioni in materia di identificazione del personale delle Forze di polizia in servizio di ordine pubblico”.
    • 2Proposta di Legge d’iniziativa dei deputati FRATOIANNI, SCOTTO, FERRARA, DANIELE FARINA, DURANTI, PIRAS, QUARANTA, COSTANTINO. Disposizioni in materia di identificazione del personale delle Forze di polizia in servizio di ordine pubblico. Presentata l’8 aprile 2015.
    • 3Comunicato FSP Polizia di Stato.
    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Nuova Proposta di Legge per l'identificazione del personale delle Forze di polizia in servizio di ordine pubblico.
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  • Corte dei Conti. Medicina legale della pubblica amministrazione

    Titolo
    Corte dei Conti. La medicina legale della pubblica amministrazione tra diritto e contenzioso
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    Presso la Sede della Corte dei Conti di Roma è stato organizzato un importante Convegno volto a promuovere e tutelare la cultura medico-legale a livello scientifico, legislativo, sociosanitario e professionale. L’obiettivo è quello di difenderne i principi etici e deontologici coinvolgendo nello stesso consesso medici, magistrati ed avvocati, per affrontare gli argomenti partendo da punti di vista differenti. Si evidenzieranno le normative che nel tempo possono essersi stratificate in modo disarmonico e che oggi necessitano di una rivisitazione e ridefinizione alla luce dell’attuale evoluzione sociale, scientifica e giuridica nonché di ogni relativo proficuo dibattito.

    convegno medicina legale

    Lunedì 22 ottobre 2018

    Ore 13.30
    Registrazione partecipanti

    Ore 14:30
    Saluto delle autorità
    Angelo Buscema Presidente della Corte dei Conti
    Gen. C.A. Claudio Graziano Capo di Stato Maggiore della Difesa


    Ore 15:00
    Propulsioni e inizio attività congressuali
    Il Risarcimento del danno tra causa di servizio e responsabilità civile
    Alberto Avoli Procuratore Generale Corte dei Conti:
    La medicina legale della Pubblica Amministrazione tra storia ed attualità
    Brig. Gen. Luigi Lista Presidente del Collegio Medico Legale della Difesa.

    1^ Sessione

    ORGANISMI GIURIDICO-SANITARI DELLO STATO: CRITICITÀ A QUASI VENT’ANNI DALL’INTRODUZIONE DEL D.P.R. 461/01

    Presiede: Fausta Di Grazia Procuratore Generale Aggiunto Corte dei conti
    Modera: Franca Franchi Direttore Generale Direzione dei Servizi del Tesoro - MEF

    16.00 Le attività degli organismi territoriali (CMO, CMV, Commissioni ASL E CM II Istanza). Cap. me CC Maria Teresa Sorrenti Membro effettivo Sezione Speciale Collegio Medico Legale.

    16.20 Il Comitato Di Verifica per le Cause Di Servizio.
    Fausta Di Grazia Presidente del Comitato di Verifica per le Cause di Servizio.

    16.40 Coffe break

    17:00 Il Collegio Medico Legale: attività delle Sezioni Speciali presso la Corte dei conti.
    Col. sa. (me) Paolo Giuliani Presidente della Sezione Speciale del Collegio Medico Legale presso la Corte dei conti di Roma.

    17.20 L’attività dell’Ufficio Medico Legale del Ministero della Salute.
    Clara Valiani Dirigente Medico Professionalità Sanitarie, Uff. 3° Medico Legale - Direzione Generale della Vigilanza sugli Enti e della Sicurezza delle Cure.

    17.40 Indipendenza, imparzialità e terzietà degli organi giuridico-sanitari dello Stato nell’ambito dell’attività di consulenza tecnica in materia pensionistica. Giovanni Comite Consigliere 3^ Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello

    18.00 Il punto della giurisprudenza amministrativa nella materia delle cause di servizio ed il concetto della discrezionalità tecnica
    Gaetana Natale Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Generale dello Stato

    18.20 Discussione - Fine lavori 1ª giornata

     

    Martedì 23 ottobre 2018

     

    2^ Sessione

    RESPONSABILITÀ SANITARIA ALLA LUCE DELLA LEGGE 24/2017

    Presiede: Andrea Lupi Procuratore Regionale Lazio Corte dei Conti
    Modera: Riccardo Zoia Professore Ordinario Università Studi Milano Presidente della S.I.M.L.A.

    09.00 La colpa penale dell’esercente le professioni sanitarie tra legge e giudice.
    Claudio Buccelli Professore Ordinario Medicina Legale Università Federico II di Napoli.

    09.30 La responsabilità medica in ambito penale alla luce della legge 24/17.
    Rocco Blaiotta già Presidente IV Sezione Penale Corte di Cassazione.

    10.00 Imperizia e linee guida nel fuoco della responsabilità penale.
    Matteo Caputo Professore Associato Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Giurisprudenza.

    10.30 La responsabilità sanitaria tra tradizione e innovazione.
    Giacomo Travaglino Presidente 3^ Sezione Civile Corte di Cassazione.

    11.00 Coffee break

    11.30 La responsabilità amministrativa.
    Paolo Crea Vice Procuratore Regionale Lazio Corte dei Conti.

    12.00 Il controllo dei costi e il quadro delle responsabilità.
    Carlo Chiappinelli Presidente Sezione Regionale Controllo Lazio.

    12.30 Il punto di vista dell’avvocato.
    Antonio Grumetto Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Generale dello Stato.

    13.00 Discussione

    13.30 Light Lunch

     

    3^ Sessione

    GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL DIRITTO A PENSIONE

    Presiede: Luciano Calamaro Presidente 2^ Sezione Giurisdizionale di Appello
    Modera: Magg. Gen. Nicola Sebastiani Ispettore Generale Sanità Militare

    14.30 La causa di servizio ed i conseguenti benefici dopo il Decreto Salva Italia.
    Francesco Tomasone Professore addetto alla Corte Costituzionale.

    15.00 La causa di servizio e le altre tutele delle patologie da lavoro: un confronto necessario per nuove proposte.
    Patrizio Rossi Sovrintendenza Medica Generale Direzione Generale INAIL
    Fabrizio Ciprani Direttore di Sanità Polizia di Stato.

    15.40 Una inabilità difficile: il proficuo lavoro nelle sue evoluzioni medico-legali e giurisprudenziali.
    Giorgio Bolino Presidente Commissione Medica Superiore del MEF
    Massimo Piccioni Coordinatore Generale Medico Legale INPS.

    16.20 Le patologie asbesto correlate ed altri rischi specifici.
    CV (San) Nicola Maffeo Membro effettivo del Collegio Medico Legale della Difesa.

    16.40 Coffee break

    17.00 Attualità giurisprudenziale in tema di causa di servizio e di pensione privilegiata ordinaria.
    Elena Tomassini Consigliere 1^ Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello.

    17.30 Contenzioso: il punto di vista dell’avvocato
    Maurizio Maria Guerra Avvocato dello Studio Legale Associato Guerra

    18.00 Discussione e somministrazione questionari

    18.20 Fine lavori
    Procuratore Generale Corte dei Conti Alberto Avoli
    Ispettore Generale della Sanità Militare Magg. Gen. Nicola Sebastiani.

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Presso la Sede della Corte dei Conti di Roma è stato organizzato un importante Convegno volto a promuovere e tutelare la cultura medico-legale a livello scientifico, legislativo, sociosanitario e professionale.
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  • Cassarà e Antiochia. Un’amicizia all’estremo sacrificio

    Titolo
    Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Un’amicizia sino all’estremo sacrificio
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    Di Pippo Giordano

     

    Tenterò di far comprendere che tra Ninni e Roberto non c’è stato solo e soltanto un rapporto tra il funzionario e l’agente, ma qualcosa di più che andava oltre l’attività investigativa. Quando Roberto è arrivato nella nostra sezione, diretta da Cassarà, subito è stato accolto con simpatia e se vogliamo con tenerezza: era giovanissimo. Un ragazzo alto, snello, un vero simpaticone che si è subito inserito nel gruppo. Egli è arrivato all’indomani dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, insieme a tanti altri colleghi, tra funzionari ed agenti. Alcuni di loro, dopo essere stati riservatamente scrutinati, sono stati costretti a lasciare la Mobile, mentre Antiochia, così come Beppe Montana, è rimasto. D’altronde non poteva essere diversamente: solo il personale che dava garanzia e dimostrava capacità investigative poteva far parte di quella che all’unisono era considerata l’università delle investigazioni d’Italia, ovvero la Squadra Mobile di Palermo.

    repubblica 07/08/85

    Sono passati 27 anni ed ancora oggi ho ricordi nitidi di Roberto e Ninni, entrambi assassinati il 6 agosto del 1985. E, quando nel maggio del ’85 mi sono congedato per l’ultima volta da Cassarà, la mia premonizione si è poi avverata. Nel salutarci, dopo un caloroso e forte abbraccio (io lasciavo Palermo) ho detto a Ninni che da quelle finestre del condominio di fronte al suo, i killers potevano sparare in tranquillità. “Ninnì non mi piace questo posto” ho soggiunto. E sempre, in quel mese di maggio del ’85 commentando il cambio di dirigenza della Mobile, ho detto a Ninnì: “Questa Squadra mobile entro sei mesi sarà distrutta”. Non mi sono sbagliato, purtroppo! A luglio c’è stata la morte di Salvatore Marino, avvenuta proprio negli uffici della Mobile.

    commemorazione

    Sovente, passo metà del mio tempo a ricordare tutti i miei migliori amici che mi hanno lasciato e l’altra metà per comprendere i motivi della loro scomparsa. Non riesco a darmi risposte: non riesco a darmi pace. Prima di tutto perché mi è stato letteralmente impedito di raggiungere Palermo, dopo l’assassinio di Beppe Montana. Secondo, una domanda echeggia nella mia mente. Perché lo Stato ha permesso gli omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, innocenti bambini, donne indifese e semplici onesti imprenditori, per finire poi con le stragi del 92/93? Nel periodo della Mobile di Cassarà respiravamo il “nuovo” modo d’investigare: metodo innovativo che ribaltava la visione del fenomeno mafia. Per decenni lo strapotere di Cosa nostra veniva collocato e circoscritto nei confini siciliani. Mentre la lungimiranza di Ninni Cassarà, in raccordo con Giovanni Falcone, faceva sì che le proiezione della mafia sicula, oltrepassava lo Stretto, sino a solcare l’Oceano per raggiungere gli States. In quel periodo, Chinnici e Falcone potevano contare su un team d’investigatori di tutto rispetto: Cassarà, Montana della V°sezione investigativa antimafia e Francesco Accordino della sezione “Omicidi”. Due Sezioni che collaboravano gomito a gomito. Una meravigliosa stagione era iniziata nel contrasto a Cosa nostra. Finalmente, lo squarcio sulle nebulose attività pregresse contro la mafia, era avvenuto: un’aria nuova impregnava soavemente i nostri uffici e tutti eravamo consapevoli che la guerra contro Cosa nostra potevamo vincerla: era a portata di mano. Sognatori, illusi e niente più. Ma, in noi c’era un senso di disciplina a quelle che erano i dettami della Costituzione: innanzi tutto il dovere e la fedeltà. Purtroppo, ahimè, anche nelle nostre file i traditori tramavano contro di noi intessendo rapporti, certamente remunerativi, col nemico Cosa nostra. E, lo Stato non solo è rimasto sordo alle richieste mie e di Cassarà, per ottenere più mezzi e strumenti per contrastare Cosa nostra, ma, come le indagini hanno poi dimostrato, qualche importante uomo politico incontrava segretamente la mafia. Solo condoglianze, solo corone di fiori e qualche parole di circostanza seguivano i feretri di poliziotti, carabinieri e magistrati sino all’ultima dimora. Pupiate, nel vero stile italico. Ma noi andavamo avanti. E, la dimostrazione dell’alto senso dell’amicizia sta nel gesto di Roberto Antiochia che sino all’estremo sacrificio è stato accanto al suo “Capo” Ninni Cassarà. Io avrei dovuto e voluto essere con loro in via Croce Rossa a Palermo: luogo del loro martirio, ma mi è stato impedito.

     

    Ninni e Roberto vi ricordo con affetto e non perdo mai occasione di raccontarvi ai ragazzi delle scuole medie e superiori: devono conoscere qual è stata la vostra amicizia. Devono sapere che avete pagato un alto prezzo per essere stati onesti, per essere stati davvero uomini che credevano nell’onore. Altro che gli appartenenti a Cosa nostra, che pomposamente si facevano e si fanno chiamare “uomini d’onore”, oppure coloro che per soldi si dono venduti ai mafiosi. La differenza tra voi e loro, sta in quel meraviglioso vostro sorriso che ogni giorno illuminava la nostra V° Sezione.


    pippo giordano

    Pippo Giordano è “il sopravvissuto”. Ex ispettore della Dia, ha attraversato la stagione più dura della lotta alla mafia in prima linea. Senza pentiti e intercettazioni ma al fianco di alcuni degli ultimi eroi civili d’Italia. Con Paolo Borsellino il giorno dell’ultimo interrogatorio di Gaspare Mutolo; compagno di pattuglia di Lillo Zucchetto, agente “troppo sveglio” e quindi ucciso all’inizio degli anni Ottanta; con Beppe Montana nelle montagne madonite alla ricerca di Michele Greco, il “papa”, qualche mese prima che anche lui venisse ammazzato; con Ninni Cassarà e Natale Mondo alla squadra mobile di Palermo e con Giovanni Falcone lungo l’arco di tutta la sua camera, a Palermo o in giro per l’Italia alla ricerca dei soldi di Cosa nostra. Pippo Giordano la mafia l’ha respirata fin da piccolo, assistendo alle visite di suo padre al boss della zona, con tanto di baciamano e “servo suo sono”. Un elemento in più per diventare bersaglio della mafia. Giordano conosce la lingua ufficiale dei mafiosi, ne comprende i passaggi logici e ne anticipa le mosse. E così negli anni Novanta diventa il “custode” dei pentiti. Fra poliziesco e libro-in-chiesta, “Il sopravvissuto” è un racconto intenso, pieno d’umanità, scritto con il linguaggio della strada, che narra anche i retroscena e le ombre di quella zona di contatto fra mafia e pezzi di Stato.


    Ringraziamo Pippo Giordano per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato pubblicato da 19luglio1992.com ed è consultabile direttamente sul sito della testata cliccando qui.

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    In questo ricordo di Pippo Giordano, il rapporto speciale che univa il vicequestore Antonino Cassarà con l'agente di scorta Roberto Antiochia.
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  • Atleti Paralimpici della Difesa. Storia raccontata in Rivincita

    Titolo
    Gli atleti Paralimpici della Difesa: una storia di vittorie raccontata in un libro
    Contenuto della pagina

    Una storia di persone che hanno incontrato il buio e ne sono usciti, hanno saputo rialzarsi ad ogni caduta maledicendo l’ostacolo e aggrappandosi alla loro forza di volontà.

    Un libro importante che rivaluta lo sport e ne promuove il ruolo di veicolo di socialità, libertà e unione e, parallelamente, dimostra che può essere lo strumento migliore per riappropriarsi della vita, non solo nel caso di incidente o infortunio, come quelli vissuti e narrati dagli atleti, ma per chiunque si trovi a vivere con i limiti (soggettivi e oggettivi) di una disabilità.

    Non sono storie di eroi, ma di persone normali che, attraverso lo sport hanno ritrovato la forza e l’energia quando sembravano non averne più; che hanno fatto dei loro limiti una spinta, non per diventare eccezionali ma per tornare a vivere una quotidianità nuova, diversa da quella che conoscevano e sono diventati un esempio per tutti.

    I protagonisti

    protagonisti Rivincita

    Nel 2014 quando tutto è cominciato erano 12… in due anni il numero degli atleti è salito a 41 ed è destinato ad aumentare. Non solo perché possono accadere altri eventi critici ma perché, per fortuna, molti dei militari che sono stati feriti in servizio, con un po’ di tempo e coraggio, si sono convinti a rimettersi in gioco. Come in alcune grandi imprese pionieristiche sono in molti ad aspettare che qualcun altro faccia il primo passo… e pochi ad assumersi il rischio di fare da apripista.
    Pochi ma buoni, anzi buonissimi. Fra questi uno in particolare è il “motore” dell’impresa GSPD e mai come nel suo caso tale epiteto è stato più appropriato. Il Tenente Colonnello Marco Iannuzzi è un “motore vivente”, non solo perché lui ha passato parte della sua vita su un aereo ma soprattutto perché ha spinto, guidato e, a volte trascinato, i pochi visionari che lo hanno seguito e assecondato.

     

    Avevano ragione però: da 12 a 41 in tre anni, partecipazione ad eventi e manifestazioni atletiche di importanza mondiale, successi e vittorie in ogni disciplina, visibilità e riconoscimenti per le fatiche e l’impegno.

    Serg. M.O.V.M. Andrea Adorno; Col. (R.O.) Alessandro Albamonte, Dipendente civile della Difesa, Antonio Auricchio; 1° Mar. (R.O.) C.A.M.E. Luca Barisonzi; Ten. Col. (R.O.) Pasquale Barriera; Mar. Magg. Bonaventura Bove; Sc. 3^ cl (R.O.) Gianfranco Bongiovanni; Col. (R.O.) Carlo Calcagni; C.le Magg.Ca.Sc. Andrea Maria Cammarata; Ten. Col. (R.O.) Giuseppe Campoccio; C.le Magg.Sc. (R.O.) Pellegrina Caputo; 1° Mar. (R.O.) C.O.A.T. Simone Careddu; App. Massimo Chiappetta; C.le Magg.Sc. (R.O.) M.O.V.E. – C.O.A.T Monica Graziana Contrafatto; C.le Magg.Ca.Sc. M.O.V.T. Luca Cornacchia; Mar. Magg. Giovanni Dati; Serg. Antonio Della Volpe; Mar. Magg. (R.O.) M.O.V.CC. Loreto Di Loreto; Car. Sc. (R.O.) Raffaele Di Luca; C.le Magg.Ca (R.O.) Simone D’Orazio; C.le Magg. Ca. M.O.V.T. Maurizio Drago; C.le Magg.Ca.Sc. (R.O.) M.A.V.C. Ferdinando Giannini; App. Sc. (R.O.) Domenico Giulini; C.le Magg.Ca. Sc. M.B.V.E. Giuseppe Grilletto; Ten. Col. (R.O.); Armando Marco Iannuzzi; C.le Magg.Ca.Sc. (R.O.) C.O.M.E. Salvatore La Manna; C.le Magg.Ca. Luca Locci; C.le Magg.Ca.Sc. Moreno Marchetti; Mar. Magg. Fabio Marsiliani; Vice Brig. (R.O.) M.B.V.E. Marco Menicucci; Mar. Ca. (R.O.) Francesco Mottola; Ten.Col. (R.O.) M.O.V.M. Gianfranco Paglia; Ten.Col. (R.O.) M.B.V.M. Roberto Punzo; Assistente Tecnico Alessandro Recita; C.le Magg.Sc. (R.O.) Domenico Russo; S.Ten. (R.O.) Massimo Sapio; Assistente Tecnico Giuseppe Spatola; Ten. (R.O.) Piero Rosario Suma; Sc. (R.O.) Antonio Tafuri; Ten. Col. Fabio Tomasulo; Ten.Col. (R.O.) Potito Massimo Vitella.

    Il volume

    copertina Rivincita

    RIVINCITA

    Le storie, le sfide, le vittorie del GSPD – Nuova edizione a cura di Puntidivista
    Casa Editrice Puntidivista
    http://www.puntidivistapdv.it

    Pagine: 156
    ISBN 978-88-98793-70-9
    Prezzo: 15 Euro
    Per ordini: info@puntidivistapdv.it

     

    bellucci

    Benedetta Bellucci è l’autrice di RIVINCITA - Le storie, le sfide, le vittorie del GSPD, un libro che parla di forza, coraggio, e determinazione. Biografie e immagini che fermano le azioni e le reazioni del Gruppo Sportivo Paralimpico della Difesa che, in tre anni, ha già scritto una storia che merita di essere raccontata: quella di una “rivincita”, intesa come riscossa, rinascita, e, spesso, vittoria.

     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Presentiamo il volume “Rivincita”, la storia, le vite, le vittorie del Gruppo Sportivo Paralimpico della Difesa.
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  • Aggressioni ad agenti e carabinieri in aumento

    Titolo
    Aggressioni ad agenti e carabinieri in aumento di oltre il 25% nel 2017 - ASAPS
    Contenuto della pagina

    Giordano Biserni
    Presidente ASAPS

     

    Sono dati veramente preoccupanti. Quasi nessuno ne parla, ma le aggressioni alle forze di polizia durante i servizi di vigilanza stradale o controllo del territorio sono sempre più allarmanti. Ricordiamo che in questo Osservatorio non rientrano le altre lesioni agli agenti conseguenti all’attività di mantenimento dell’ordine pubblico o di indagini di polizia giudiziaria.
    Nei primi 9 mesi del 2017 lo speciale Osservatorio “Sbirri Pikkiati” dell’ASAPS ha registrato 2.027 aggressioni fisiche refertate a carico di agenti e carabinieri, con un incremento di 416 attacchi rispetto allo stesso periodo del 2016 e un assurdo incremento del 25,8%. Si consideri che in tutto il 2016 le aggressioni furono 2.113.

    Ancora i Carabinieri al primo posto negli attacchi con 938 aggressioni fisiche pari al 46,3%, seguono gli agenti della Polizia di Stato con 740 (36,5%), poi la Polizia Locale con 213 (10,5%). Il resto delle aggressioni è distribuito fra le altre forze di polizia (8,5%).
    In 537 casi l’aggressore era ubriaco o drogato pari al 26,5%. Esattamente 212 i drogati dei 537 casi.
    Sono stati 925 gli attacchi portati da stranieri, cioè il 45,6% del totale. Una percentuale piuttosto costante negli anni e sempre superiore al 40%.
    In 346 casi gli aggressori hanno utilizzato armi proprie o improprie (è compresa qui la stessa vettura per investirli) 17,1%.
    Insomma anche nel 2017 oltre 7 agenti o carabinieri sono entrati ogni giorno in un pronto soccorso, uno ogni 3 ore circa. Le lesioni spesso sono di pochi giorni, ma in alcuni casi sono state gravissime, come quelle riportate nel settembre scorso dall’ispettore della Polizia Locale di Catania Luigi Licari, vittima di una brutale aggressione durante il suo servizio e ricoverato in gravi condizioni in coma farmacologico. L’ispettore ancora oggi versa in condizioni serie e non ha ripreso le sue normali funzioni.

    Non sono mancate per gli operatori di polizia fratture agli arti, al setto nasale, ferite da investimento col veicolo.
    Una situazione ormai persino imbarazzante da descrivere.
    Noi, l’ASAPS, non ci vogliamo limitare a tenere solo questa triste contabilità della violenza, ma facciamo un appello alla politica e ai vertici delle Istituzioni perché questa situazione umiliante e rischiosa venga finalmente affrontata da chi ha le competenze e i poteri per farlo.
    Anche i cittadini devono preoccuparsi di questo fenomeno ormai incontenibile. Quando viene aggredita la diga, se gli argini non tengono, poi dopo ci siamo noi tutti.


    Ringraziamo Giordano Biserni e ASAPS, per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato originariamente pubblicato il 21 dicembre 2017 ed è consultabile direttamente sul sito di ASAPS cliccando su questo link.


    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Violenza incontenibile sulla strada. I dati sempre più preoccupanti dell’Osservatorio “Sbirri Pikkiati” dell’ASAPS.
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  • Mamma di Peppino Impastato nel memoriale del Giardino dei Giusti

    Titolo
    La mamma di Peppino Impastato nel memoriale del Giardino dei Giusti di tutto il Mondo
    Contenuto della pagina

    Il Giardino dei Giusti di tutto il Mondo, è un luogo simbolico che la città di Milano ha voluto dedicare alla memoria delle figure esemplari di resistenza morale di ogni parte della Terra. Nel Giardino vengono onorati gli uomini e le donne che hanno aiutato le vittime delle persecuzioni, difeso i diritti umani ovunque fossero calpestati, salvaguardato la dignità dell’Uomo contro ogni forma di annientamento della sua identità libera e consapevole, testimoniato a favore della verità contro i reiterati tentativi di negare i crimini perpetrati. A ciascuno di loro è dedicato un ciliegio selvatico, messo a dimora durante una cerimonia in sua presenza o con la partecipazione dei suoi familiari, con un cippo in granito deposto nel prato sottostante. Il giardino si trova nella grande area verde del Monte Stella.

    Giardino dei Giusti

    Dal 8 marzo 2016, Felicia Bartolotta Impastato fa parte della grande famiglia del Giardino dei Giusti. A testimonianza della “RESISTENZA MORALE E CIVILE DELLE DONNE PER LA PROPRIA DIGNITÀ, PATRIMONIO UNIVERSALE”. Nei giorni della ricorrenza della sua scomparsa, la ricordiamo attraverso il gesto con il quale la città di Milano ha voluto ospitarla all’interno del Giardino dei Giusti di tutto il Mondo. Il ciliegio selvatico che da allora porta il suo nome, continua a crescere a fianco dei ciliegi di Vaclav Havel, Primo Levi, Nelson Mandela e i tanti Giusti che hanno fatto grande il genere umano. Nonostante il genere umano.

    Felicia Bartolotta Impastato, la madre di Peppino Impastato

    Felicia Impastato memoriale
    Ha difeso la memoria del figlio Peppino ucciso dalla mafia nel 1978 a Cinisi e denunciato il boss mandante del delitto

    Felicia Bartolotta nasce in una famiglia della piccola borghesia provvista di qualche appezzamento di terra, coltivato ad agrumi e ulivi. Il padre è impiegato al Comune, la madre casalinga, come sarà anche Felicia. Si sposa, nel 1947, con Luigi Impastato, di una famiglia di piccoli allevatori legati alla mafia del paese. Il 5 gennaio 1948 nasce Giuseppe, detto Peppino; nel 1953 nasce il secondogenito Giovanni. Luigi Impastato, durante il periodo fascista, aveva fatto tre anni di confino a Ustica, assieme ad altri mafiosi della zona, e durante la guerra era stato dedito al contrabbando di generi alimentari. Dopo non ebbe più problemi con la giustizia. Il cognato di Luigi, Cesare Manzella, marito della sorella, era il capomafia del paese. Manzella muore nel 1963, ucciso dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo.

    La morte dello zio colpisce profondamente Peppino, che aveva quindici anni e da tempo aveva cominciato a riflettere su quanto gli dicevano il padre e lo zio. Felicia ricorda che le diceva: «Veramente delinquenti sono allora». L’affiatamento con il marito dura molto poco. Lei stessa afferma: «Appena mi sono sposata ci fu l’inferno. Attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava. Io gli dicevo: ‘Stai attento, perché gente dentro [casa] non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre’». Felicia non sopporta l’amicizia del marito con Gaetano Badalamenti, diventato capomafia di Cinisi dopo la morte di Manzella, e litiga con Luigi quando vuole portarla con sé in visita in casa dell’amico. Il contrasto con il marito si acuirà quando Peppino inizierà la sua attività politica.

    Per quindici anni, dall’inizio dell’attività di Peppino fino alla morte di Luigi, avvenuta otto mesi prima dell’assassinio del figlio, la vita di Felicia è una continua lotta, che però non riesce a piegarla. In quegli anni non ha più soltanto il problema delle amicizie del marito. Ora c’è da difendere il figlio che denuncia potenti locali e mafiosi e rompe con il padre, impegnandosi nell’attività politica in formazioni della sinistra assieme a un gruppo di giovani che saranno con lui fino all’ultimo giorno. Felicia difende il figlio contro il marito che lo ha cacciato di casa, ma cerca anche di difendere Peppino da se stesso. Quando viene a sapere che Peppino ha scritto sul foglio ciclostilato L’idea socialista un articolo sulla mafia va in giro per il paese per raccogliere le copie e distruggerle. E quando l’attività politica di Peppino entra nel vivo, non ha il coraggio di andare a ascoltare i suoi comizi, ma intuendo di cosa avrebbe parlato chiede ai suoi compagni di convincerlo a non parlare di mafia. E a lui: «Lasciali andare, questi disgraziati».

    Morto il marito in un oscuro incidente, Felicia intuisce che per Peppino il pericolo è aumentato: «Guardavo mio figlio e dicevo: ‘Figlio, chi sa come ti finisce’. Lo andai a trovare che era a letto, gli dissi: ‘Giuseppe, figlio, io mi spavento’. E come apro quella stanza, ché ci si corica mia sorella là, io vedo mio figlio, quella visione mi è rimasta in mente».

    La mattina del 9 maggio 1978 viene trovato il corpo sbriciolato di Peppino. Felicia dopo alcuni giorni di smarrimento decide di costituirsi parte civile nel processo per l’omicidio. Una decisione che nelle sue intenzioni doveva servire anche per proteggere Giovanni, il figlio che le era rimasto e che, al contrario, in questi anni si è impegnato assieme alla moglie (anche lei Felicia), per avere giustizia per la morte di Peppino. Felicia ricorda: «Gli dissi: ‘Tu non devi parlare. Fai parlare me, perché io sono anziana, la madre, insomma non mi possono fare come possono fare a te’». Per questa decisione ha dovuto fare ancora una volta una scelta radicale, rompere con i parenti del marito che le consigliavano di non rivolgersi alla giustizia.

    Al contrario, da allora Felicia ha aperto la sua casa a tutti coloro che volevano conoscere Peppino. Le delusioni, quando sembrava che non si potesse ottenere nulla, e gli acciacchi di un’età che andava avanzando non l’hanno mai piegata. Al processo contro Badalamenti (fortemente voluto da lei e dal figlio Giovanni), venuto dopo 22 anni, con l’inchiesta chiusa e riaperta più volte grazie anche all’impegno di alcuni compagni di Peppino e del Centro a lui intitolato, con il dito puntato contro l’imputato e con voce ferma lo ha accusato di essere il mandante dell’assassinio. Badalamenti è stato condannato, come pure è stato condannato il suo vice.

    Entrambi sono morti, e Felicia, che aveva sempre detto di non volere vendetta ma giustizia, a chi le chiedeva se aveva perdonato rispondeva che delitti così efferati non possono perdonarsi e che Badalamenti non doveva ritornare a Cinisi neppure da morto. E il giorno in cui i rappresentanti della Commissione parlamentare antimafia le hanno consegnato la Relazione, in cui si dice a chiare lettere che carabinieri e magistrati avevano depistato le indagini, esprime la sua soddisfazione: «Avete risuscitato mio figlio». Felicia ha accolto sempre con il suo sorriso tutti, in quella casa che soltanto negli ultimi tempi, dopo un film che ha fatto conoscere Peppino al grande pubblico, si riempiva, quasi ogni giorno, di tanti, giovani e meno giovani che desideravano incontrarla. Rendendola felice e facendole dimenticare i tanti anni in cui a trovarla andavano in pochi e a starle vicino erano pochissimi. E ai giovani diceva: «Tenete alta la testa e la schiena dritta».

    Muore il 7 dicembre 2004 nella sua casa a Cinisi.


    Il brano “FELICIA BARTOLOTTA IMPASTATO, la madre di Peppino Impastato” è tratto dalla scheda pubblicata da Gariwo, La Foresta dei Giusti, che ringraziamo pubblicamente per l’apprezzata concessione alla riproduzione. Il testo originale è disponibile sul sito di Gariwo ed è raggiungibile cliccando questo link.


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Un cippo in granito ed un ciliegio selvatico ricordano Felicia Bartolotta Impastato nel Giardino dei Giusti di Milano.
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  • Ricordo Brigadiere Attilio Bonincontro

    Titolo
    «Ho fatto solo del bene e non temo nulla» così il Brigadiere Attilio Bonincontro spiegava perché non era mai armato
    Contenuto della pagina

    Giuseppe Romano

    L’omicidio Bonincontro

    Buscetta viene gratificato di colloqui straordinari in carcere, nel senso che entravano delle persone del calibro di Bontade, Michele Greco, Giuseppe Calderone, Nino e Rosario Riccobono (latitante) e in un angolo dell’ufficio matricola colloquiavano e avevano la possibilità di parlare con qualsiasi persona. Buscetta dice che fino al 1977 quando lui voleva, lo faceva. Telefonava in Brasile a sua moglie e lo faceva quando voleva e il giorno da lui stabilito: «…quando alle volte veniva mia moglie per periodi di 15-20 giorni, un mese, facevo dei colloqui tutti i giorni, sempre alla matricola e senza permesso dei giudici … ». E’ in questo clima politico di indifferenza verso il fenomeno mafioso che operano centinaia di Agenti di Custodia lasciati alla mercè di criminali spietati, abbandonati a se stessi dai propri superiori, ed è proprio in quell’ufficio matricola più volte menzionato nelle sue dichiarazioni che incontriamo la figura del brigadiere Attilio Bonincontro, Capo ufficio matricola e uomo simbolo dell’Ucciardone ucciso sotto casa la sera del 30 novembre del 1977.

    Arruolatosi nel 1945, nel 1954 dopo un breve periodo passato a Nicosia, Bonincontro venne trasferito all’Ucciardone. Nel suo stato di servizio dal 1948 in poi figurava sempre la parola ottimo; era stato promosso brigadiere nel 1963. Per 23 anni e 5 mesi Bonincontro aveva prestato servizio dalle ore 7:30 alle 13:30 e dalle ore 15:30 alle 18:30. Stressato dal lavoro aveva chiesto ed ottenuto di mettersi in ferie con il 1° di dicembre. La sera prima lo assassinarono.

    Bonincontro era l’archivio vivente dell’Ucciardone. Giunto all’Ufficio Matricola nell’epoca calda della Banda Giuliano, dal suo ufficio erano passati almeno tre generazioni di malviventi e altrettante di avvocati e magistrati. Si trovava lì quando fu avvelenato Pisciotta (luogotenente di Salvatore Giuliano n.d.r.) e anche quando fu avvelenato Angelo Russo (1956) altro componente della banda.

    Nel 1957, dopo la violenta sommossa che aveva devastato gran parte dell’Ucciardone, Bonincontro era stato costretto ad un duro e difficile lavoro di ricostruzione di registri e schedari. Se l’era cavata egregiamente.

    Alla fine degli anni ’60 aveva conosciuto i big della mafia siculo-americana da Genco Russo a Frank Coppola, da Gaspare Magaddino a Paolino Bontà, da Vincent Martinez a John Bonventre, da Diego Plaia a Vincenzo e Filippo Rimi.

    La cronaca

    Il Brigadiere Bonincontro quando era di buonumore diceva che non appena in pensione avrebbe potuto scrivere un libro sulla storia dei personaggi che in 23 anni si erano susseguiti all’Ucciardone e di cui aveva registrato nominativi e impronte digitali. Ma Bonincontro non scriverà mai il suo libro, verrà crivellato da sette colpi di pistola.

    quotidiano La Sicilia 02/12/77

    Ricostruiamo le fasi dell’omicidio così come ci viene descritto dal cronista dell’epoca. Attilio Bonincontro è rimasto fino alle 20,00 all’Ucciardone ed è uscito dalle carceri disarmato come sempre; a tutti era solito dire: «Ho fatto solo del bene e non temo nulla», si è messo al volante della sua 500 per fare ritorno a casa dove l’attendeva la moglie Angela Lo Jacono. Bonincontro ha posteggiato la vettura a pochi metri dallo stabile dove abitava al n.218 di via Sanpolo.

    Davanti all’ingresso dell’edificio viene avvicinato da due giovani sui vent’anni che iniziano a discutere animatamente con il brigadiere per circa un minuto. Bonincontro tronca il dialogo e si avvia a passi svelti verso l’atrio del palazzo.

    La portiera preme il pulsante elettrico che fa scattare la serratura. Dopo lo scatto Bonincontro entra e sta per chiudere quando i giovani gli sparano davanti impedendogli di chiudere, probabilmente uno dei due ha inserito il piede tra i battenti.

    l due giovani tirano fuori le pistole e aprono il fuoco. Il Brigadiere viene raggiunto da sette proiettili cal. 7,65 alla nuca e al volto, quindi, con estrema rapidità i due fuggono a bordo di una Fiat 128 (che risulterà rubata dieci giorni prima) ritrovata abbandonata mezz’ora dopo in via Maggiore Toselli a poche centinaia di metri dal luogo del delitto. Attirati dai colpi di pistola escono da una vicina trattoria, per accertarsi dell’accaduto, i clienti del locale. Il delitto non ha tolto loro l’appetito visto che subito dopo tornano a mangiare!

    Pochi minuti dopo avvisato il 113 giungono sul luogo il vice questore Boris Giuliano, il Dirigente della Criminalpol Bruno Contrada, il Magistrato di turno Domenico Signorino (personaggi ai quali la mafia ha stroncato la vita come Giuliano assassinato e Signorino suicida dopo le dichiarazioni di un pentito, o la carriera come Contrada processato per collusione con la Mafia).

    Alle 20.55 una telefonata al giornale L’ora con frasi smorsicate che parlano di un gruppo politico e rivendicano la morte di un aguzzino. Ma pare subito un’abile manovra per sviare le ricerche, poiché il giorno scelto per l’esecuzione c’era lo sciopero dell’informazione con conseguente ritardo della pubblicità al caso. Gli inquirenti scavano nel passato di Bonincontro non rilevando alcuna ombra; egli godeva di buona fama ed un certo prestigio all’interno dell’Ucciardone.

    Tutti sono concordi nell’affermare che il Brigadiere trattava i detenuti con molta umanità non tralasciando di venire incontro ai loro bisogni. Era insomma considerato come un intoccabile ed a sottolineare la figura del personaggio gioca anche il particolare che Bonincontro non era mai armato.

    Un delitto che comunque ha una sua chiave di lettura all’interno dell’Ucciardone. Bonincontro, quale Capo ufficio matricola, redigeva per ogni aspirante ai benefici introdotti con la riforma del 1975, la relazione illustrativa del comportamento del detenuto e delle possibilità o meno di un suo reinserimento nella vita sociale. Una relazione, in un certo senso, vincolante della decisione camerale del Tribunale di Sorveglianza. Bastava così che Bonincontro predisponesse una relazione negativa perché naufragassero le speranze di chi aspirava a trascorrere i rimanenti anni di galera in semilibertà. In quella direzione gli inquirenti esaminarono i fascicoli di tutti i detenuti che avevano avuto istanze respinte; si cercava di capire se Bonincontro si fosse attirato l’odio di qualche aspirante ad uno dei benefici.

    Ancora oggi non sappiamo il motivo per cui fu ucciso Bonincontro, anche se alla luce delle dichiarazioni di Buscetta si potrebbe collegare necessità da parte dei mafiosi di chiudere la bocca a chi, probabilmente costretto ad operare in certo modo, sapeva veramente troppe cose, o considerate le modalità dell’esecuzione si potrebbe ipotizzare il netto rifiuto a far qualcosa di illecito data la sua posizione privilegiata di Capo ufficio matricola e uomo simbolo dell’Ucciardone.


    Ringraziamo Giovanni Battista De Blasis, Direttore Editoriale di Polizia Penitenziaria, per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato originariamente pubblicato nel numero di novembre 1996 della rivista e riproposto nel numero di ottobre 2012 ed è consultabile direttamente sul sito della testata cliccando su questo link.


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    A 42 anni dalla sera in cui perse la vita, ricordiamo il Brigadiere Attilio Bonincontro reo della sola colpa di non volersi piegare alla criminalità mafiosa.
    Immagine principale
    Data di aggiornamento
  • Scandalo uranio impoverito parla Ministro degli Esteri Giulio Terzi

    Titolo
    Sull’uranio la resistenza a oltranza del Ministero della Difesa è semplicemente vergognosa. Ambasciatore Giulio Terzi
    Contenuto della pagina

    Giulio Terzi di Sant’Agata
    Ambasciatore ed ex Ministro degli Esteri

    Scandalo Uranio Impoverito: I militari italiani… sempre “in ginocchio”?

    La vicenda dell’Uranio Impoverito nasce molti anni fa, con alcune coraggiose denunce e molte battaglie portate avanti anche da figure come quella del Generale Fernando Termentini: l’uranio impoverito viene usato nelle munizioni anticarro, in quanto – se adeguatamente legato con alcuni metalli e trattato ad alte temperature – diviene duro e resistente come l’acciaio temperato, ed è quindi molto efficace per perforare le corazzature. Il problema è che si tratta pur sempre di materiale radioattivo – ancorché con emissioni di basso livello – potenzialmente tossico, anche in quanto “metallo pesante”: quando un penetratore all’uranio impatta su un obiettivo, o quando un carro armato con corazzatura all’uranio prende fuoco, parte dell’uranio impoverito brucia e si frammenta in piccole particelle, che rimangono sul suolo e possono venire sepolte o rimanere sommerse nell’acqua, disgregandosi e ossidandosi, ed anche – sotto forma di nanoparticelle – disperdersi nell’aria, con possibili effetti nocivi non solo sull’ambiente ma anche sull’Uomo. Uno studio effettuato da Diane Stearns, biochimico presso la Northern Arizona University, ha stabilito infatti che cellule animali esposte al sale di uranio solubile in acqua sono soggette a mutazioni genetiche determinando tumori e altre patologie, indipendentemente dal suo grado di radioattività, con danni potenziali ai reni, pancreas, stomaco/intestino ed effetti citotossici e cancerogeni.

    La cosiddetta “Sindrome dei Balcani” pare quindi aver colpito centinaia di Militari italiani, del tutto ignari dei potenziali pericoli di questo tipo di armi, con almeno 216 casi di morte e 2.500 malati, ai quali – tutti, nessuno escluso – va la mia più sentita vicinanza e incondizionata solidarietà e appoggio. La cosa davvero deprimente è stato vedere come questa delicatate vicenda sia stata costantemente oggetto di dinieghi, coperture facilmente giustificate da considerazioni relative alla riservatezza, e anche vere e proprie contestazioni da parte dei diversi governi Italiani e Alleati‎, specialmente dal Pentagono, con la motivazione che “non era provato un nesso di casualità tra l’uso delle armi all’uranio impoverito e l’eccezionale numero di malattie tumorali e decessi verificatisi per gli uomini dispiegati in teatri operativi dove l’UI era stato utilizzato”. Solo a seguito di forti campagne di giornalismo investigativo portate avanti negli USA – paese dove la libertà di stampa e il giornalismo investigativo hanno tradizioni e radici profonde – il Pentagono ha successivamente dovuto cambiare registro: è maturato a un certo punto, negli alti gradi di quella Amministrazione e nello stesso Segretario alla Difesa, il convincimento che il riconoscimento dei diritti e delle sofferenze subite dai militari vittime dell’UI dovesse superare le “ragioni di Stato” che in precedenza avevano portato a negare, contestare, e difendere apoditticamente i vertici dalle responsabilità, leggerezze, e talvolta errori imperdonabili di alcuni comandi militari, con il risultato che il riconoscimento in America del nesso di casualità ‎tra impiego dell’UI e danni alla salute dei militari spiegati nelle zone contaminate ha rafforzato ovviamente le richieste di risarcimento avanzate anche in altri Paesi, e diverse sentenze della giustizia civile e amministrativa le hanno accolte anche in Italia.

    Fin qui, tutto sembrava prendere – pur con inaccettabili ritardi – una piega ragionevole: nel senso di ottenere, finalmente, dopo un decennio di dinieghi, il giusto riconoscimento e apprezzamento morale per i Militari vittime inconsapevoli prima, e denigrati poi come millantatori e bugiardi, di armi che avevano prodotto “effetti collaterali” cosi gravi per le stesse FF.AA. che le utilizzavano‎. Ma invece di porre al primo posto la dignità e la salute dei nostri Militari, inspiegabilmente il nostro Ministero della Difesa ha inscenato un “muro contro muro” ottusamente burocratico, impegnandosi in ogni sorta di azione pretestuosa e allungando ogni oltre possibile limite i tempi di riconoscimento del problema e di risarcimento dei nostri Soldati, anche bloccando i pagamenti dovuti grazie a sentenze della Magistratura passate in giudicato. Trovo questa “resistenza a oltranza”, degna di miglior causa, SEMPLICEMENTE VERGOGNOSA: la dignità e il valore delle nostre FF. AA e dei nostri Uomini con le stellette, non meritano l’ennesima vicenda umiliante nella quale sembrano ancora una volta sottoposti, con Soldati che nulla o non abbastanza sapevano dei rischi che stavano materialmente correndo, mentre le responsabilità al di sopra di un certo livello di comando sono state invece premiate con il silenzio e gli avanzamenti automatici di carriera… Cari vertici dell’Amministrazione, cosa dovrebbero fare, questi nostri Militari, pregarvi in ginocchio per vedere riconosciuti i loro diritti…?

    Facciamo sentire la nostra voce!


    giulio terzi

    In accordo con l’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ospitiamo il suo intervento sul tema dei militari italiani colpiti dalle conseguenze dell’uso dell’uranio impoverito, il materiale con cui si realizzano proiettili di artiglieria in grado di perforare mezzi corazzati.

    Tale materiale bellico ha la controindicazione di sviluppare, nell’impatto, temperature così alte da nebulizzare i metalli e creando microparticelle che se inalate o ingerite possono essere causa di gravi forme tumorali.


    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Le parole di un uomo delle istituzioni come l'ambasciatore ed ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, sullo scandalo dell'uranio impoverito.
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  • Vita da agente di scorta

    Titolo
    Vita da agente di scorta: professione angelo custode
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    Di Elisa Chiari per Famiglia Cristiana

     

    L’ombra è la loro dimensione: sono l’ombra delle persone che devono proteggere, stare nell’ombra è una necessità, per discrezione e perché passare inosservati li rende meno vulnerabili.

    scorta paolo borsellino

    Agenti di scorta non si nasce, nel senso che non basta vestire la divisa della Polizia di Stato (anche se le scorte per non apparire lavorano in borghese), lo si diventa per scelta aggiungendo alla preparazione tecnica di base, un addestramento supplementare, specifico e selettivo che comincia con il corso di prima formazione di 5 settimane al Centro di addestramento e istruzione della Polizia di Stato (Caip) di Abbasanta in Sardegna (test psicoattitudinali in ingresso ed esami di idoneità in uscita) e continua con periodi di aggiornamento a cadenza triennale, per stare al passo con l’evoluzione di tecniche e rischi.

    «La scuola di Abbasanta – spiega Antonio Pigozzi, primo dirigente della Polizia di Stato, direttore del Caip – esiste dal 1970, dal 1979 forma gli agenti destinati ai servizi di protezione personale dei soggetti a rischio di attentato, non solo della Polizia di stato, ma anche delle polizie a ordinamento civile». In Italia attualmente la legge prevede quattro livelli di protezione, dal 4 il più basso, all’1, il più elevato, con una dotazione di uomini e di mezzi in proporzione al rischio valutato oggettivamente secondo l’attività di intelligence. «Dal 2003 il servizio scorte è gestito dall’ Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, mentre prima faceva capo ai Prefetti. I corsi, patrocinati dall’Ucis, si svolgono con modalità analoghe perla polizia, i carabinieri, la guardia di finanza e la polizia penitenziaria».

    scorta falcone montinaro

    Domenico Comunale, vicequestore aggiunto e vice direttore del Cais, traccia l’identikit dell’agente di scorta, ma sgombera il campo dall’immaginario muscolare del ruolo: «Accanto alle attitudini di base, estremo equilibrio, buon senso, capacità di gestire lo stress, formazione deontologica, dal punto di vista tecnico ha bisogno di intuito, intelligenza, capacità di osservazione degli scenari, capacità di previsione: l’essenza della funzione di un agente di scorta è la prevenzione del rischio: si tratta di fare in modo che la persona protetta non arrivi a trovarsi in situazioni di pericolo che vanno, invece, prevenute. E’ chiaro che questo non può prescindere dal livello di reattività fisica che il servizio richiede nei casi estremi, qualora dovessero verificarsi. Si cerca, comunque, di trasmettere l’idea che non esiste momento di stand by, che anche quando il protetto è in un luogo sicuro, chi fa scorta continua a gestire lo scenario per cogliere in tempo utile i segnali di cambiamento».

     

    Un profilo complesso che richiede capacità di bilanciare relazione e discrezione, oltreché saperi tecnici, al quale negli anni si sono progressivamente affacciate anche le donne, sempre meno vissute come un’eccezione: «Il più efficace agente di scorta – continua Comunale – è quello che riesce a gestire il rapporto con la persona protetta in modo da averne la collaborazione attiva. Se la persona protetta avverte l’operatore – uomo o donna che sia – come colui che garantisce la continuazione della vita quotidiana e le sue attività in sicurezza, sarà più propensa ad accettare di sentirsi dire che una certa cosa non si può fare, perché non ci sono le condizioni per evitarne il rischio. Le donne, progressivamente più numerose negli anni, hanno avuto il problema di superare il concetto antropologicamente maschile dell’atto della protezione, ma hanno portato in più una preziosa dote di empatia, di intuito, di dimensione aggregante nella dinamica di gruppo». Elementi preziosi, quando si tratta – come sempre accade – di dover proteggere le vite degli altri, cercando di invaderle il meno possibile.


    Ringraziamo Elisa Chiari e Famiglia Cristiana per averci concesso l’opportunità di condividere un estratto di questo lavoro. L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di Famiglia Cristiana del 17/07/2015 ed è consultabile direttamente sul sito della testata all’ indirizzo: http://www.famigliacristiana.it/articolo/professione-angelo-custode.aspx


     

    Riassunto
    Gli uomini e le donne senza nome, che troppo spesso vengono ricordati con il solo termine di "Scorta".
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  • Premio Nazionale Vittime del Dovere alla memoria del maresciallo Lattanzio

    Titolo
    Al Maresciallo Franco Lattanzio il premio Nazionale Vittime del Dovere alla memoria
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    Ore 8.50 del mattino del 27 aprile 2006, un ordigno artigianale ad alto potenziale esplode contro una colonna dei Carabinieri diretta alla base del Centro operativo provinciale interforze a Sud-Ovest di Nassiriya, Iraq. Bilancio tragico di 4 morti e un ferito: il capitano dell’esercito Nicola Ciardelli (34 anni), il maresciallo capo dei carabinieri Franco Lattanzio, il maresciallo capo Carlo De Trizio (37 anni), che muore prima di arrivare in ospedale, il caporale della polizia militare rumena Bogdan Hancu (28 anni). Rimane gravemente ferito un altro sottufficiale dei carabinieri, Enrico Frassanito, che morirà il 7 maggio a Verona per le gravi ustioni riportate dall’esplosione. La tipologia dell’innesco e la rivendicazione su Internet delle Brigate Imam Hussein, legate ad Al Qaeda, collegherebbero l’attentato ai vecchi servizi segreti di Saddam Hussein.

    Il maresciallo Lattanzio era partito in missione il 3 Dicembre 2005 e il suo rientro, al comando provinciale di Chieti, era previsto per il 10 Maggio 2006, ma la sua vita si ferma 13 giorni prima.

    Da allora, ogni anno, la comunità di Pacentro, paese natale del maresciallo, si raccoglie intorno al suo ricordo perché molti sono coloro che gli hanno voluto bene. “Nonostante il dolore non va via, vedere tante persone ancora oggi vicino a noi ci dà conforto” ¹ dice il fratello Antonio il quale racconta a Rete Abruzzo che anche suo figlio Giuseppe indossa la divisa dei carabinieri. “Sta seguendo le orme di suo zio e sta proseguendo quella strada che per mio fratello è stata interrotta. Siamo fieri e contenti che Giuseppe abbia scelto con coraggio e serenamente di intraprendere la carriera, portando in alto il nome dei Lattanzio. Non ci siamo spaventati quando ci ha annunciato questo suo desiderio proprio come non aveva paura Franco, nemmeno Giuseppe si tirerà indietro se dovrà partire in missione: perché i carabinieri sono coraggiosi. Nella vita bisogna essere forti e mai pensare che le cose debbano farle sempre gli altri, perché gli altri siamo noi e bisogna avere coraggio di fare scelte anche rischiose”.


    Brano tratto dall’articolo “Emozioni e ricordi nella cerimonia solenne in onore di Franco Lattanzio a Pacentro” pubblicato su Rete Abruzzo il 27/04/2016.


    Venerdì 10 novembre il maresciallo Lattanzio verrà ricordato in occasione del settimo appuntamento con l’approfondimento criminologico voluto dall’associazione nazionale vittime del dovere, dalla Uil e dall’international Police Association Abruzzo. La memoria del valoroso sottufficiale dell’Arma sarà onorata con la consegna ai suoi cari del Premio Nazionale Vittime del Dovere “Stefano Piantadosi” per la sua straordinaria fibra morale e l’immortale spirito di servizio, fonte di ispirazione e di esempio per tutto il Paese. L’appuntamento è al teatro Maria Caniglia di Sulmona (AQ), all’interno del VI Seminario di Criminologia Città di Sulmona e Molina Aterno che quest’anno ha per tema il “41 Bis Efficacia e limiti: certezza della pena e tutela della memoria delle vittime del dovere”.

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Il Premio Nazionale Vittime del Dovere alla memoria del maresciallo Franco Lattanzio.
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  • Interventismo militare non indigna più gli italiani

    Titolo
    L’interventismo militare non indigna più gli italiani come accadeva un tempo
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    Un sondaggio condotto dal Laboratorio di Analisi Politiche e Sociali dell’Università di Siena, per conto e con la collaborazione dell’Istituto Affari Internazionali, consegna un quadro in rapido cambiamento per quanto concerne le paure che cambiano gli italiani. Interessante è la parte che riguarda l’utilizzo delle Forze Armate sulle quali si sta assistendo ad un radicale cambiamento di opinione.

     

    “Nell’impiego delle forze armate a difesa delle nostre città, sono in netta maggioranza (il 69%) gli italiani che la ritengono una misura adeguata e necessaria. E c’è anche chi preferirebbe (il 14%) che l’Italia dichiarasse lo stato di emergenza come la Francia”. 

    “La tendenza a giustificare un maggiore impiego dei militari si estende anche alle missioni all’estero. Beninteso, gli italiani non sono ancora diventati degli accesi interventisti, e i favorevoli all’invio di contingenti oltreconfine sono – come nel 2013 – poco meno di un terzo. Ma in quattro anni la percentuale dei contrari alle missioni internazionali è scesa dal 59 al 41%, e gli incerti sono triplicati. Forse perché è meno vivo il ricordo dell’intervento del 2011 in Libia , mentre è acuta la percezione dei nuovi rischi provenienti dal Medio Oriente.

    In particolare, si ha forse più chiaro lo scopo dell’azione attuale in Iraq. Dopo la catena degli attentati che hanno colpito l’Europa, per gli italiani il terrorismo è una minaccia ancora sfocata, ma incombente. Non a caso, se il 42% degli intervistati si dice contrario a qualunque intervento italiano, il 44% sostiene che l’Italia dovrebbe mantenere il suo impegno nella coalizione anti-Isis a nord dell’Iraq, mentre un 14% appoggerebbe anche una partecipazione dell’Italia alle operazioni in Siria. E pur di arginare l’offensiva jihadista, il 77% degli italiani rafforzerebbe la collaborazione antiterrorismo con la Russia, malgrado non ne condivida la politica in Ucraina e Siria.

    Cresce anche il consenso per la creazione di un esercito unico europeo (lo reclama il 30% del campione, mentre il 38% chiede, accanto a questo, di mantenere l’esercito nazionale), e per il rafforzamento del ruolo degli degli Stati europei all’interno della Nato (al 62%). Ma di aumentare le spese militari al 2% del Pil – come richiesto dall’Alleanza – per la maggioranza degli italiani non se ne parla”.


    Tratto dall’articolo “Le paure che cambiano gli italiani: una su tutte, l’immigrazione” di Isabella Ciotti – pubblicato su Affari Internazionali del 09/10/2017 e il cui testo integrale si può leggere a questo link: http://www.affarinternazionali.it/2017/10/paure-cambiano-italiani-immigrazione/


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Sondaggio sulle paure degli italiani condotto dal Laboratorio di Analisi Politiche e Sociali dell’Università di Siena, per conto e con la collaborazione dell’Istituto Affari Internazionali.
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  • Ricordo del Maresciallo Felice Maritano

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    «Il carabiniere lo si conosce solamente quando muore». Ricordo del Maresciallo Felice Maritano
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    La frase riportata nel titolo è dell’allora Colonnello dei Carabinieri Giuseppe Franciosa, pronunciata ricordando il Maresciallo Maggiore Felice Maritano dopo la sua scomparsa avvenuta per mano del terrorismo delle Brigate Rosse. Per la gente comune, la divisa di un servitore dello Stato è quasi sempre anonima, anonima fino a quando un fatto eclatante, e purtroppo il più delle volte tragico, ricorda loro che quella divisa ha un grado, un nome e una famiglia. Per la gente comune è così, ma non per i colleghi che lavorando fianco a fianco si conoscono bene e, come nel caso del Maresciallo Maritano, ne riconoscono il valore perché considerato “uno degli uomini più validi sui quali l’Arma potesse contare”.

     

    Nato a Giaverno (TO) nel 1919, Felice Maritano partecipa alla guerra dei Balcani nelle file dell’Arma dove gli furono conferite diverse onorificenze, tra cui la promozione sul campo ad Appuntato ed una Croce di Guerra al valor militare. Dopo l’8 Settembre, viene internato in Germania fino alla termine del secondo conflitto mondiale.

    Ripercorriamo qualche momento della vita del maresciallo Maritano grazie anche all’articolo di Max Remondino sul Nucleo Investigativo contro il terrorismo pubblicato su Il Carabiniere,  e ricordiamo qualche evento accaduto dopo sua la scomparsa.

    Il nucleo investigativo

    Carlo Alberto dalla Chiesa

    Arrivato al termine della sua lunga carriera nelle file della Benemerita, anziché andare in pensione, scelse di rimanere in servizio per lavorare nel Nucleo Investigativo creato dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa per la lotta al terrorismo. “Maritano fornì un contributo decisivo nei primi successi del Nucleo stesso, che condussero all’arresto dei terroristi Carnelutti e Sabatino (e alla disfatta della colonna lodigiana delle Brigate Rosse), poi all’individuazione del covo nel quale si nascondevano Renato Curcio e Alberto Franceschini (e al loro arresto), e infine all’operazione contro la base brigatista di Robbiano di Mediglia, nei pressi di Milano (15 ottobre 1974)”.

    Robbiano di Medaglia

    “Al momento di far scattare l’operazione a Robbiano, il Nucleo speciale aveva già al suo attivo un bilancio rispettabile per la sua breve esistenza operativa: 34 arresti; 43 denunzie; 193 perquisizioni domiciliari; 160 accertamenti bancari; 93 sopralluoghi; 456 rilievi fotografici; 1.050 informazioni richieste. Un segno del dinamismo del generale Dalla Chiesa e dell’impegno dei suoi uomini. Quando i Carabinieri arrivarono a Robbiano, il covo era vuoto. Alcuni militi si nascosero all’interno dell’appartamento.

     

    L’allora colonnello Franciosa descrisse così quell’operazione in una intervista: «Maritano non faceva questione di turni: rimaneva in piedi tutta la notte. Era l’unico di tutto il nucleo che non aveva fatto alcun giorno di licenza, diceva che l’avrebbe fatta quando sarebbe finita questa storia. All’interno dell’appartamento erano al buio, ma nelle scale c’era la luce». Era evidente che i carabinieri si erano predisposti ad aspettare a oltranza il ritorno dei brigatisti, «tanto è vero che gli uomini in attesa nell’atrio della casa si erano organizzati con una piccola stufetta elettrica che avevano trovato nella stessa casa: anzi, scherzando, dicevano che la bolletta della luce l’avrebbero pagata i brigatisti. Maritano era un uomo di 56 anni in compagnia di altri sottufficiali che avevano 25-26 anni e li teneva svegli per il semplice fatto che lui era sveglio. Era un po’ per tutto il reparto un simbolo, non perché aveva i capelli grigi, ma perché aveva la vivacità e l’entusiasmo spesso non riscontrabili in un giovane». Maritano era anziano, ma era «fisicamente efficientissimo, tanto efficiente che nell’inseguimento ha superato gli altri due molto più giovani di lui».


    “Nell’appartamento fu trovato materiale investigativo di notevole interesse (tra cui mitra e pistole utili all’identificazione dei terroristi implicati nel rapimento del giudice Sossi), esplosivi e munizioni. Fu anche rinvenuta un’agenda di Sossi, un documento Br firmato da Sossi. Nel covo uno Sten, due mitra, un moschetto, un revolver, una carabina, tre bombe a mano tedesche (le Stielhandgranaten), numerosi silenziatori, decine di metri di miccia e molti documenti falsi (passaporti, carte d’identità, eccetera). I tre brigatisti arrivarono uno alla volta. Alle 13 e alle 21,30 due di essi, armati di pistola con il colpo in canna (calibro 7,65 mm), furono arrestati.

    Non avendo partecipato alla cattura del primo brigatista, Pietro Bassi, il maresciallo Maritano ottenne di partecipare ai turni di piantonamento successivi ed insistette per rimanere perché non voleva lasciare soli i colleghi più giovani nei momenti più rischiosi. Vista la sua esperienza, la richiesta fu accettata. Alle 21,30 partecipò alla cattura di Piero Bertolazzi, che tentò di estrarre una 7,65, ma fu bloccato dai militi. Alle 3,20, dopo un breve riposo nella branda del covo, uno scalpiccio sulla tromba delle scale mise in allarme i carabinieri (con Maritanoerano di turno i brigadieri Calapai e Furno). Quello che successivamente fu identificato come il brigatista Roberto Ognibene si trovò a pochi metri da loro. Maritano intimò «Alt, Carabinieri!», ma Ognibene si dette alla fuga lungo la tromba delle scale, inseguito dai tre militi. Il silenzio della notte fu lacerato dai colpi della Smith & Wesson calibro 38 special del terrorista. I colpi raggiunsero il maresciallo, che però non si diede per vinto. Scostò Calapai per sparare contro il brigatista, lanciandosi al suo inseguimento. Continuò a sparare con la mano sporca di sangue appoggiandosi alla parete, finché quattro colpi neutralizzarono il brigatista. I due arrivarono al piano terra. Ognibene stramazzò al suolo e Maritano gli si accasciò vicino, come se volesse controllarlo. Quasi esanime, esortò ancora i due sottufficiali a catturare il brigatista. Morì durante il trasporto all’ospedale”. 

    La commozione del paese

    Cerimonia funebre Maritano

    Genova, 19 ottobre 1974. Cerimonia funebre del Maresciallo Maggiore Felice Maritano. Immagine tratta dal Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri, anno I numero 6.

     

    “La morte del valoroso maresciallo destò una profonda emozione anche nell’Italia indurita dall’asprezza della lotta politica. A parte tutte le manifestazioni ufficiali di cordoglio, giunsero al Comando Generale numerose testimonianze di solidarietà e di fiducia. Ma il clima non si allentò neppure durante i funerali. La notte precedente arrivarono telefonate minatorie che annunciavano nuove azioni durante le esequie. Scritte minacciose furono tracciate sui muri della chiesa e nelle vie adiacenti. In risposta a queste intimidazioni, all’uscita del feretro dalla chiesa tutte le sirene del porto di Genova suonarono. Lo Stato fu presente: al funerale, in prima fila c’erano Sandro Pertini, presidente della Camera, e Paolo Emilio Taviani, ministro degli Interni. Maritano viveva a Rivarolo e fu sepolto lì. Gli abitanti ricordano ancora la sua eccellente conoscenza della zona ed il fatto che lui cercava di aiutare la gente in difficoltà e di comporre le liti. Non si tirava indietro nel lavoro e non guardava di che partito si fosse: «Basta che siano persone oneste, per me sono tutte uguali», diceva. «Il carabiniere lo si conosce solamente quando muore», commentò il colonnello Franciosa.”

     

    Dopo la scomparsa

    Motivazione Medaglia d’Oro al Valor Militare
    Motivazione Medaglia d’Oro al Valor Militare.

    Per la sua azione a Robbiano di Mediglia, ma anche per tutta una vita votata alla legalità, il Maresciallo Maggiore Felice Maritano venne insignito alla memoria con la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

    Già più volte decorato al valor militare e dieci volte solennemente encomiato per brillanti e rischiose operazioni di polizia giudiziaria, chiamato – su sua reiterata richiesta – a far parte di un nucleo speciale di Polizia Giudiziaria per la lotta contro il terrorismo, si distingueva -per intelligente capacità professionale e per coraggiosa dedizione al dovere – in una serie di azioni che conducevano fra l’altro a disarticolare una organizzazione eversiva, da tempo costituitasi per colpire e sovvertire le istituzioni dello Stato, ed a catturarne taluni pericolosi esponenti. Da ultimo, offerto si volontario per capeggiare rischioso appiattamento notturno presso una base operativa della banda armata, riusciva ad intercettare uno dei banditi, che affrontava con determinazione e cosciente sprezzo del pericolo, anteponendo la propria persona a quella dei dipendenti. Benché colpito gravemente al petto dal fuoco del malvivente, persisteva nella sua decisa reazione, sino a ferire l’aggressore e – ormai morente – ad incitare i suoi uomini a catturarlo. Decedeva poco dopo, immolando in difesa della legge la sua esistenza e lasciando ai posteri un fulgido esempio di elette virtù militari e di esaltante dedizione al dovere.

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    Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri alla caserma Maritano.

    Il 24 settembre 2016 viene inaugurata a Firenze la nuova sede della Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri con intitolazione della caserma al Maresciallo Maggiore M.O.V.M. “alla memoria” Felice Maritano.  Davanti a 600 allievi carabinieri schierati, l’evento viene accompagnato dalla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi, del Ministro della Difesa Roberta Pinotti, del Capo di Stato Maggiore della Difesa Claudio Graziano, del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette e del Sindaco di Firenze Dario Nardella.

    All’interno dell’imponente complesso, è stata installata una targa in marmo e acciaio che riporta le motivazioni per le quali Felice Maritano è stato insignito di medaglia d’oro al valor militare.

    Felice Maritano è stato insignito inoltre di una Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione:

    Impegnato da vari mesi nelle difficili indagini dirette ad assicurare alla giustizia i componenti di un nucleo armato della banda criminale denominata “Brigate rosse”, partecipava, con ripetuti appostamenti, alla cattura di due terroristi. Non concedendosi alcun attimo di riposo, riusciva poi a intercettare un terzo componente della banda, che lo faceva segno a colpi di pistola. Benché mortalmente ferito rispondeva ferendo il malvivente con la sua arma, lo inseguiva, consentendone l’arresto. Cadeva al suolo e sacrificava la vita con eroismo e cosciente sprezzo del pericolo.


    Brani tratti da: Il Nucleo Investigativo contro il Terrorismo“, di Max Remondino, pubblicato su  Il Carabiniere nel numero di Febbraio 2014.


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    La frase riportata nel titolo è dell'allora Colonnello dei Carabinieri Giuseppe Franciosa, pronunciata ricordando il Maresciallo Maggiore Felice Maritano dopo la sua scomparsa avvenuta per mano del terrorismo delle Brigate Rosse.
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  • Nuova Operazione Vespri Siciliani

    Titolo
    Una nuova operazione Vespri Siciliani dell’esercito, oggi sarebbe ancora possibile?
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    600 Uomini tra finanzieri, carabinieri e poliziotti impegnati nel blitz contro il clan mafioso Rinzivillo. 700 Uomini tra finanzieri, carabinieri e poliziotti impegnati nel blitz anti camorra alle Vele di Scampia. Sono le principali operazioni delle forze dell’ordine contro le mafie svolte solo nell’ultima settimana, dove l’impegno di un alto numero di uomini in divisa è elemento che contribuisce a garantirne il successo. Poco tempo prima c’erano stati segnali d’allarme in provincia di Foggia, dove solo dopo l’ennesima strage mafiosa il ministro ha inviato 192 uomini, alcuni dei quali altamente specializzati. Ma alle forze dell’ordine della zona mancavano già quasi 200 unità. E così, solo dopo l’emergenza si è ritornati a pieno organico.

     

    La lotta alle mafie necessita ancora oggi di un alto numero di unità operative come dimostra la cronaca e risulta ancora più incisiva dove lo Stato controlla meglio il territorio con i propri uomini. Sulla base di questi presupposti e per rispondere alla domanda di legalità e sicurezza, periodicamente viene auspicata da alcuni una nuova operazione Vespri Siciliani con largo impiego dell’Esercito Italiano. Ma può, nel 2017, essere ancora replicabile quell’esperienza?

    Quando l’Esercito Italiano fu impiegato contro l’emergenza mafia in Sicilia attraverso l’Operazione VesprI Siciliani, migliaia di militari contribuirono a rendere più efficace l’attività di repressione e a riaffermare la presenza e l’autorità dello Stato. Grazie all’intervento dei militari si liberarono altrettante forze di Polizia destinate alla caccia di esponenti della malavita organizzata di tipo mafioso.

    I risultati furono evidenti a tutti, non fosse altro che vennero catturati una serie di latitanti del calibro di Salvatore Riina, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci, Benedetto Santapaola (1993), i fratelli Graviano (1994), Leoluca Bagarella (1995), Giuseppe Monticciolo, Giovanni Brusca, Giovanni Riina (1996), Pietro Aglieri e Gaspare Spatuzza (1997). Contemporaneamente nei cittadini crebbe la percezione di sentire più vicine le istituzioni.

    Al termine di Vespri Siciliani, nel luglio 1988, si poté cogliere la reale portata dell’operazione analizzando l’elenco delle attività svolte:

    Consuntivo vespri siciliani1

    Rastrellamenti    21.512


    Attività di pattugliamento    1.647


    Posti di blocco stradali    39.014


    Controlli agli automezzi    665.407


    Persone identificate    813.439


    Persone arrestate    1.225


    Armi sequestrate    168


    Kg. esplosivo sequestrati    3.113


    Controlli di edifici    62.847


    Ore di volo di controllo    2.966

     

    Nel 1995 l’allora sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, chiese la prosecuzione dell’operazione mettendo in rilievo i successi raggiunti. «Anche io all’inizio ero fortemente contrario alla presenza dell’esercito a Palermo in funzione antimafia – ricorda Orlando – ma l’esperienza vissuta prima da comune cittadino e poi da sindaco negli anni Novanta mi hanno portato a ricredermi».2

    Successivamente il giudice Gian Carlo Caselli scrisse nel suo libro L’Eredità Scomoda: “Avere interrotto i Vespri siciliani secondo me è stato uno sbaglio. Un errore che potrebbe essere cancellato riprendendo con convinzione quell’operazione. Ma devo constatare che, tra quanti potrebbero deciderlo, nessuno più neppure ne fa cenno. Eppure quando i Vespri erano in auge, tutti erano lì a enumerarne i meriti, a stringere mani, a far cerimonie, ad assicurarne la continuazione. Un entusiasmo che, poco a poco si è, incomprensibilmente spento. Fino alla conclusione dell’operazione nella pressoché generale indifferenza di uomini e forze politiche. Questo per me è stato un sintomo, certo minore ma non secondario, che i tempi in materia di antimafia stavano cambiando.”3

    Le attestazioni positive di quell’esperienza non sembrano mancare, ma le condizioni non paiono essere le stesse di allora quando il paese usciva da una serie di stragi che avevano colpito i simboli più rappresentativi dello Stato e della lotta alla mafia.  Quella stagione si è chiusa, il clima è cambiato, le istituzioni si sono avvicendate e pure la macchina militare ha cambiato pelle; la stessa mafia ha mostrato di modificare il proprio approccio, preferendo muoversi con minore clamore ma con inalterata efficacia criminale, più interessata al profitto che allo scontro. Un opinione autorevole in questo senso è quella del Generale Mario Buscemi, primo responsabile dell’operazione, che in un’intervista pur non recente spiega quanto Vespri Siciliani sarebbe difficilmente replicabile: «Erano altri tempi, innanzitutto perché avevamo a disposizione l’esercito di leva, e quindi c’era più personale, ma anche perché le condizioni in cui erano le forze armate erano migliori: oggi i tagli continui e l’impegno costante nelle missioni all’ estero stanno davvero mettendo a rischio la sopravvivenza dello strumento militare».4

    • 1“Operazione Vespri Siciliani” – Ministero della Difesa
    • 2“Quando l’esercito sbarcò in Sicilia” – Corriere della Sera, 30/10/2006
    • 3“L’eredità scomoda: da Falcone ad Andreotti, sette anni a Palermo” – Feltrinelli 2001
    • 4“Ma io che ho guidato i Vespri siciliani ora dico: è una missione solo simbolica” – La repubblica, 04/08/2008
    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Nuova Operazione Vespri Siciliani.
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  • Corso di formazione professionale a tutela della salute nelle forze di polizia

    Titolo
    Università di Camerino – Corso di formazione gratuito per appartenenti alle Forze di Polizia con riconoscimento di 3 crediti formativi universitari
    Contenuto della pagina

    Università di Camerino - Scuola di Giurisprudenza

    Camerino ottobre 2017
    Centro culturale Benedetto XIII - Colle Paradiso

    11 ottobre ore 15.00
    Intervento del Prof. Pergiorgio Fedeli UNICAM

    Emilio Di Genova

    Capitano medico Carabinieri
    Legione Carabinieri ‘Abruzzo-Molise’ – Sez. Sanità Raccomandazioni per la tutela degli operatori delle Forze di Polizia dal rischio da esposizione agli agenti biologici

     

    20 ottobre ore 15.00
    Intervento della Prof.ssa Giovanna Ricci UNICAM

    Dr. Fabrizio Ciprani
    Direzione Centrale di Sanità della Polizia di Stato di Roma Rischi lavorativi del personale delle FF.PP. e tutele assicurative

     

    26 ottobre ore 15.00
    Avv. Maurizio Maria Guerra
    Studio Legale Associato Guerra
    Causa di servizio e vittime del dovere: attualità e prospettive

    Prova finale

     

    Crediti formativi

    Il corso di Formazione da luogo al riconoscimento di 3CFU nell’ambito delle attività formative a scelta libera per il corso di laurea Magistrale in Giurisprudenza e per il corso di laurea in Scienze sociali per gli enti non profit e la cooperazione internazionale previo superamento della prova valutativa finale.
    Al termine del corso verrà rilasciato l’attestato di partecipazione e superamento della prova finale. Sarà ammessa una sola assenza.

    Direttore del corso

    Prof. Piergiorgio Fedeli

    Coordinatore del Corso

    Prof.ssa Giovanna Ricci

    Referente

    Dott. Giuseppe Losito
    Email: giuseppe.losito@carabinieri.it 
    Tel: 334 6927600

    Segreteria organizzativa

    Dott.ssa Michela Sgriccia
    Scuola di Giurisprudenza Università degli Studi di Camerino
    Tel: 0737 403000
    Email: michela.sgriccia@unicam.it

    Requisiti di partecipazione

    Appartenenti alle Forze di polizia in possesso di Diploma di scuola media superiore e studenti UNICAM

    Modalità di iscrizione

    Il modulo di adesione al corso è scaricabile direttamente da questa pagina cliccando sul link posto in calce al paragrafo ALLEGATI, oppure è disponibile sul sito UNICAM http://juris.unicam.it e su http://juris.unicam.it/forze-di-polizia/news.

    Il modulo dovrà essere compilato ed inviato ed inviato entro il 9 ottobre 2017 via mail a: michela.sgriccia@unicam.it

    Il corso è gratuito

     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Università di Camerino, Scuola di Giurisprudenza - Corso di formazione professionale in tutela della salute nelle forze di polizia.
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  • Inaugurato a Gerusalemme il bosco dedicato a Falcone Borsellino

    Titolo
    Inaugurato a Gerusalemme il bosco dedicato a Falcone, Borsellino e altri 25 magistrati italiani caduti per mafia o terrorismo
    Contenuto della pagina

    Israele dedica alla memoria del Dott. Giovanni Falcone, del Dott. Paolo Borsellino e di altri 25 magistrati caduti al servizio della giustizia e della libertà, un bosco di 27 alberi all’interno della splendida foresta presidenziale di Tzora a Gerusalemme. Al centro una targa in metallo con i nomi dei 27 giudici, sulla quale si legge: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
    27 Giudici uccisi dalla mafia e del terrorismo in Italia, i quali hanno sacrificato la loro vita per la giustizia e lo Stato. saranno ricordati da 27 alberi che sono stati piantati in loro memoria, come segno che la loro vita è stata troncata, ma la loro eredità continua a vivere.

    Gerusalemme moshe-davigo
    Piercamillo Davigo e Moshe Perl scoprono la stele

    “Gli alberi che piantiamo oggi commemorano i giudici che sono stati uccisi quando difendevano la giustizia” ha detto Moshe Perl, vice direttore del Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund. “Nell’ebraismo piantare alberi ha una grande importanza, e costituisce un legame con il Paese e la terra e un simbolo di vita”.

    La cerimonia di inaugurazione e piantumazione è avvenuta il 6 settembre alla presenza di una delegazione di 15 giudici italiani guidati da Piercamillo Davigo.

    Gerusalemme messa-a-dimora-degli-alberi
    La messa a dimora dei 27 alberi

    27 Alberi dedicati a 27 persone non comuni, simboli e punti di riferimento per chi crede ancora nella giustizia:

    Agostino Pianta
    Pietro Scaglione
    Francesco Ferlaino
    Francesco Coco
    Vittorio Occorsio
    Riccardo Palma
    Girolamo Tartaglione
    Fedele Calvosa
    Emilio Alessandrini
    Cesare Terranova
    Nicola Giacumbi
    Girolamo Minervini
    Guido Galli
    Mario Amato
    Gaetano Costa
    Giangiacomo Ciaccio Montalto
    Bruno Caccia
    Rocco Chinnici
    Alberto Giacomelli
    Antonino Saetta
    Rosario Angelo Livatino
    Antonio Scopelliti
    Giovanni Falcone
    Francesca Morvillo
    Paolo Borsellino
    Luigi Daga
    Fernando Ciampi

    Gerusalemme stele
    La stele con i 27 nomi dei magistrati italiani

    Fonte: Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund – A Forest in Memory of Italian Judges who Died Fighting for Justice – 13 Settembre 2017.

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Israele dedica un bosco alla memoria di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di altri 25 magistrati caduti per mafia o terrorismo.
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  • Crescendo di aggressioni contro la polizia penitenziaria

    Titolo
    «In carcere comandano i detenuti» E ogni giorno feriscono tre agenti
    Contenuto della pagina

    di Maurizio Tortorella

    [da La Verità del 2 agosto 2017] È cominciata un’estate d’inferno nelle prigioni. Il primo caso risale al 1° giugno: a Torino un agente è stato ferito da un detenuto italiano, in carcere per omicidio. Poi è accaduto che a Marassi, la prigione di Genova, il 7 e il 12 giugno ci siano state due risse tra africani, particolarmente violente, e ogni volta sono finiti al pronto soccorso anche gli agenti. A quel punto, come se nelle nostre 190 carceri si fossero passati la voce, è iniziato uno stillicidio d’aggressioni.

    Paura nei blocchi

    A Lecce, un recluso pakistano ha malmenato un compagno di cella e ha spedito in ospedale due poliziotti che cercavano di calmarlo. A Ferrara un ispettore capo è stato ferito da un detenuto armato di sgabello, e per punizione lo hanno anche trasferito. A Reggio Emilia 5 detenuti africani, non contenti di aver devastato i bagni di un area comune, hanno fabbricato coltelli rudimentali con cocci di ceramica e metallo, e li hanno usati per minacciare gli agenti della polizia penitenziaria: hanno desistito soltanto dopo 3 ore di trattativa. A Frosinone un detenuto straniero non ha gradito l’arrivo di un compagno di cella e così ha picchiato l”agente che ce l’aveva accompagnato.

     

    A Verona cinque poliziotti sono finiti in ospedale per aver tentato di sedare una rissa tra detenuti albanesi e nordafricani: sono stati aggrediti, in nome di Allah. Risultato, un braccio rotto e contusioni varie. Altri casi di violenza sono avvenuti a Novara, Bari, Massa Carrara, Pisa, Velletri… Sembra una storia senza fine.

    No, non troverete queste notizie sui giornali nazionali; tutt’al più trafiletti distratti nelle cronache locali. Eppure nelle carceri italiane aggressioni, risse, colluttazioni sono state decine e decine, negli ultimi due mesi. E a farne le spese, quasi sempre, sono stati gli agenti: «ormai, con una regolarità davvero impressionante, contiamo almeno due o tre feriti al giorno», dice alla Verità Donato Capece, storico segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria.

    L’emergenza, a sentire lui, è frutto soprattutto di politiche sbagliate: «È così. Da 4 anni, l’amministrazione penitenziaria ha disposto due operazioni che si sono rivelate fallimentari e pericolose. Ma è come se i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non si rendessero conto della nostra reale situazione».

    Responsabilità

    I nomi delle due operazioni sono “celle aperte” e “sorveglianza dinamica”. La prima ha dato ai detenuti di “media sicurezza”, teoricamente i meno pericolosi, la libertà di circolare negli spazi comuni per 8 ore al giorno, una decisione che si spiega con la necessità per lo Stato italiano di fare fronte alle condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2013 aveva censurato le dimensioni inadeguate delle nostre celle e ci aveva esposto al rischio di pesantissime sanzioni. La seconda operazione, secondo quanto spiega Capece, «ha di fatto eliminato i vecchi controlli diretti, che un tempo erano affidati ad almeno un agente in ogni sezione detentiva, per sostituirli con verifiche saltuarie affidate a pattuglie».

     

    Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ammette l’escalation, ma la riconduce ad altri motivi: le aggressioni avverrebbero non tanto per “porte aperte”, quanto i momenti tipici e topici della vita in carcere, e cioè soprattutto durante le traduzioni dalla cella al tribunale e viceversa. Ma che le due novità potessero creare sacche di ingovernabilità nelle carceri ed esporre i poliziotti al rischio di violenze era stato paventato alla fine dello scorso giugno da alcuni senatori della Lega Nord: «Si è consegnato il mantenimento della “pax detentiva” ai detenuti» avevano scritto in un’interrogazione al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, «e i detenuti, senza più controllo, adesso provvedono a garantirla con metodi e regole criminali in danno della restante popolazione carceraria, cui non resta che o subire tale supremazia o concorrervi con il metodo della filiazione».

    Il quadro degli istituti di pena - I nemeri al 30 giugno 2017

    • Carceri attive: 190

    • Detenuti in totale: 56.919

    • Detenuti in più rispetto al 30 giugno 2016: 2.847

    • Capienza regolamentare: 50.241

    • Detenuti oltre la capienza regolamentare: 6.678

    • Detenuti stranieri: 19.432

    • Detenuti stranieri in percentuale sul totale: 34,14%

    Morti e violenze dietro le sbarre (2016)

    • Tentati omicidi: 4

    • Suicidi: 39

    • Tentati suicidi: 1.011

    • Atti di autolesionismo: 8.586

    • Colluttazioni: 6.552

    • Ferimenti: 949

    • Decessi per cause naturali: 64

    Evasioni e fughe (2016)

    • Evasioni da istituti penitenziari: 6

    • Evasioni da un permesso: 5

    • Evasioni da un permesso premio: 34

    • Evasioni da lavoro esterno: 23

    • Evasioni dalla semilibertà: 14

    • Mancati rientri da una licenza: 37

    (Fonte ministero della Giustizia)

    Oggi, un mese dopo, uno dei senatori leghisti si dice ancora più preoccupato della situazione, anche perché il Guardasigilli Orlando non ha mai risposto all’interrogazione: «Il sistema penitenziario», denuncia Tito Di Maggio, «pare sempre più fuori dal controllo della polizia e degli organi preposti. Per di più, ci risulta che l’operazione “porte aperte”, inizialmente prevista per un ristretto numero di detenuti, sia stata estesa alle sezioni di alta sicurezza, le stesse in cui finiscono anche detenuti declassati dal regime carcerario duro del 41-bis». Il Dap replica che in realtà si tratta di una sperimentazione, molto limitata e controllatissima.

    Impunità

    Capece scuote la testa, sembra davvero sconfortato: «È vero, hanno praticamente lasciato il carcere in mano ai detenuti. Soprattutto gli stranieri, che sono un terzo del totale, hanno capito velocemente che, da noi, la disciplina non esiste. Si sentono e sono impuniti, sanno che comunque vada non rischiano nulla. È anche per questo che aumentano non soltanto le violenze ma anche le evasioni, come mostra la doppia fuga appena venuta a Civitavecchia. Scappano di cella perché ci hanno tolto dalle mani la sicurezza, e la gente deve saperlo. Sono state tolte anche le sentinelle sulle mura di cinta delle carceri, e questo è gravissimo».

     

    Il segretario del Sappe denuncia un rischio in più: e cioè che in questa situazione sia destinata ad aumentare anche la potenziale radicalizzazione dei detenuti di religione islamica: «Basta che un recluso particolarmente forte, nelle sue 8 ore di libertà di movimento, “lavori” bene nella testa di un suo collega più fragile. Chi lo tiene d’occhio, oggi?». Del resto, aggiunge Capece, le stesse statistiche carcerarie dimostrano che i controlli sono di per sè insufficienti, se è vero che ogni nove giorni un detenuto si uccide è che ogni 24 ore almeno altri tre tentano di farlo e vengono fermati in extremis, mentre ci sono 23 atti di autolesionismo.

    «A creare questa situazione» sostiene Capece «hanno contribuito i tagli di spesa: noi agenti della polizia penitenziaria, sulla carta, dovremmo essere 41.253 e invece siamo soltanto 32.336. Ne mancano 8.917, più di uno su cinque. Per questo chiediamo aiuto al ministro Orlando: se c’è, batta un colpo, ci aiuti. Il blocco del turn over, in sette anni, ha lasciato invecchiare la nostra categoria, la cui età media oggi e sui 50 anni con problemi di tenuta fisica: facciamo turni teorici di otto ore, ma ci aggiungiamo 40-50 ore di straordinario mensile, retribuito con appena 10 euro lordi all’ora».

    Spiccioli

    Va detto che proprio lo scorso giugno il Ministero della Giustizia ha lanciato un bando per 400-500 nuovi agenti. «Ma non bastano nemmeno per cominciare a tappare i buchi» protesta il segretario del Sappe. Intanto si è appena iniziato a discutere del nuovo contratto di lavoro del comparto sicurezza, il settore di cui anche la polizia penitenziaria fa parte. «Purtroppo sta finendo in farsa anche questo» sorride amaro Capece. «Abbiamo iniziato a trattare, ma non sappiamo nemmeno di che risorse potremmo disporre. E si parla di un aumento di 30 euro netti mensili…».


    Articolo pubblicato su La Verità del 2 agosto 2017, qui riprodotto integralmente per gentile concessione del suo autore Maurizio Tortorella, che ringraziamo.


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Dal 1° giugno è stato un crescendo di aggressioni contro la polizia penitenziaria. Tutta colpa dell’operazione «celle aperte» che lascia i reclusi liberi di circolare per otto ore.
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  • Rita Atria testimone di giustizia

    Titolo
    Rita Atria: una storia dimenticata
    Contenuto della pagina

    Rita Atria è stata una testimone di giustizia solo grazie alla fiducia che riponeva in Paolo Borsellino. Si è uccisa una settimana dopo la strage di Via D’Amelio, perchè capí di esser rimasta sola e da soli non si puo’ sconfiggere la mafia. Una storia ignorata da molti quando Rita era in vita, una storia dimenticata da tanti anche dopo la sua morte. La ricordiamo 25 anni il suo tragico gesto.

    Rita Atria è una testimone di giustizia, vittima indiretta della mafia. Nasce a Partanna (Tp) il 4 settembre 1974, muore a Roma il 26 luglio 1992. Figlia di Giovanna Cannova e don Vito Atria (ufficialmente allevatore di pecore, in realtà piccolo boss locale), Rita cresce in questo comune che da centro di pastori si trasforma nel tempo in un luogo di traffico di denaro proveniente dal giro della droga.

    Negli anni dell’ascesa al potere dei Corleonesi, Partanna, Alcamo e altri comuni del Belice, fungono da scenario alle lotte per il potere tra vari clan rivali. Vito Atria è un mafioso vecchio stampo, fa parte di quella mafia che sussurra alla politica ma che non vuole sporcarsi le mani con la droga e questo, all’epoca, significa mettersi contro i Corleonesi che stanno invadendo il trapanese di “raffinerie” di eroina.

    Da carnefici a vittime

    Nel 1985, due giorni dopo le nozze del figlio Nicola con Piera Aiello, don Vito viene ucciso in un agguato, vittima egli stesso dell’ascesa insanguinata dei Corleonesi ai vertici di Cosa Nostra. Rita ha soltanto 11 anni, è una bambina. Alla morte del genitore, il fratello Nicola assume il ruolo di capofamiglia e l’amore e la devozione per quel padre mafioso, ma pur sempre padre, si riversa su quest’unica figura maschile a lei vicina e su Piera, sua cognata. Nicola è un pesce piccolo che con il giro della droga acquista rispetto e potere. Il loro rapporto si fa intenso e complice, al punto da trasformare la “picciridda” (bambina) Rita in una confidente. È in questi momenti di intimità fraterna che Nicola rivela tanti segreti: i nomi delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, il movente, chi comanda a Partanna, chi decide la vita e la morte. Lo stesso fidanzato di Rita, Calogero Cascio, un giovane del suo paese impegnato nella raccolta del pizzo, le dà l’opportunità di venire a conoscenza di fatti che non dovrebbe sapere.

     

    Nel giugno del 1991 anche Nicola Atria muore in un agguato. La cognata di Rita, presente all’omicidio del marito, decide di denunciare gli assassini alla polizia, è il mese di luglio. Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita Atria resta a Partanna sola, rinnegata dal fidanzato (perché cognata di una pentita) e da sua madre, con cui non ha mai avuto un buon rapporto, che lamenta il perduto onore della famiglia a causa di Piera.

    A pochi mesi di distanza (novembre), la diciassettenne Rita Atria, per dar voce al suo desiderio di vendetta, di rivalsa su quel “mondo” vigliacco in cui non ha scelto di nascere ma che sceglie di rifiutare, segue l’esempio di Piera chiedendo allo Stato giustizia per l’omicidio del padre e del fratello. La vendetta tanto desiderata, a poco a poco, si trasforma in “voglia di vedere altre donne denunciare e rifiutare la mafia”.

    Le confessioni di una “picciridda”

    È l’allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino (collaborano anche Alessandra Camassa, Morena Plazzi e Massimo Russo), a raccogliere le dichiarazioni di Rita Atria che, nel tempo, ha segnato sul suo diario le confidenze fattele dal fratello. Le deposizioni di Rita e Piera consentono alla giustizia di fare luce sugli ingranaggi che regolano le cosche mafiose del trapanese e della Valle del Belice, delineando gli scenari della faida sanguinaria – più di 30 omicidi – tra la famiglia Ingoglia e gli Accardo. Le loro dichiarazioni consentono, inoltre, di avviare un’indagine sul discusso operato dell’onorevole Vincenzino Culicchia, sindaco di Partanna per più di trent’anni.

     

    Trasferita a Roma sotto protezione e falso nome, Rita vive isolata, costretta a frequenti cambi di residenza. Non rivedrà più la madre che la rinnega per l’affronto recato alla famiglia, nonostante il tentativo da parte di Borsellino di far sì che Giovanna accetti le scelte della figlia. Proprio con Borsellino, invece, Rita instaura un rapporto confidenziale. In “zio Paolo”, come comincia a chiamarlo, trova un uomo gentile con cui si sente al sicuro.

    Luglio 1992

    L’uccisione del giudice Borsellino (strage di via D’Amelio) avvenuta il 19 luglio del 1992 getta Rita nello sconforto. Il 26 luglio, una settimana dopo la morte dello “zio Paolo”, Rita Atria si suicida gettandosi dal settimo piano del palazzo in cui vive.

     

    “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto che ha lasciato nella mia vita. […] Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta”.

    Il funerale di Rita si celebra a Partanna, né la madre né il paese partecipano alla commemorazione di questa giovane testimone di giustizia. A distanza di qualche mese la stessa Giovanna distrugge con un martello la lapide della figlia posta sulla tomba di famiglia, per cancellare la presenza scomoda di una “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri” che non è riuscita ad allinearsi ad una condotta d’onore. Per lungo tempo la memoria di Rita non trova pace, e per molto tempo la sua tomba non ha una foto che ricordi la “picciridda”, seppellita nello stesso cimitero insieme ad alcuni di quegli uomini che ha denunciato e che hanno un nome, una foto, un ricordo.


    Ringraziamo Stefano Moraschini e Biografieonline per averci concesso la riproduzione di questo testo. E’ possibile consultarne il sito su http://biografieonline.it/biografia-rita-atria.


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Paolo Borsellino per lei era lo stato che la proteggeva. morto il magistrato è morto anche lo stato.
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    Borsellino per lei era lo Stato che la proteggeva. Morto il magistrato è morto anche lo Stato.
  • Giuseppe Costanza

    Titolo
    Giuseppe Costanza: anni di battaglie legali per vedere riconosciuti i propri diritti dallo Stato
    Contenuto della pagina

    Autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino a quel giorno a Capaci. Poi un muro di silenzio e l’emarginazione di anni, fino al riconoscimento della sua figura di testimone civile e dei propri diritti pensionistici di vittima del terrorismo.

    La strage di Capaci è stato uno degli esempi più eclatanti della disparità di trattamento tra vittime di uno stesso evento lesivo: nonostante siano state tutte “Vittime di mafia”, solo alcune sono state riconosciute “Vittime del terrorismo” mentre per altre, il riconoscimento si è fermato a “Vittima della criminalità organizzata”.

    Non si tratta solo di una differenza terminologica, considerato che solo ai familiari di “Vittime del terrorismo”, sopravvissute con invalidità almeno del 50%, sono concessi, a ognuno di essi, assegni per circa 1.900 euro al mese. Per non dire poi dei benefici pensionistici, come l’aumento figurativo di dieci anni di anzianità contributiva e pensione pari all’ultima retribuzione, incrementata del 7,5%, se l’invalidità permanente della vittima risulti almeno pari all’80% ovvero non inferiore al 25% con prosecuzione dell’attività lavorativa fino al naturale periodo di pensionamento.

    Giuseppe Costanza, autista del giudice Giovanni Falcone, è stato un esempio di questo diverso trattamento. Nonostante fosse stato riconosciuto sin da subito “Vittima del terrorismo”, ha avuto per anni liquidata erroneamente la pensione: è dovuto ricorrere all’intervento del Giudice per vedersi applicata la normativa come da suo diritto.

    La vicenda di Costanza non è purtroppo un caso isolato: anomalie analoghe le abbiamo riscontrate soprattutto negli eventi in cui sono rimasti invalidi gli appartenenti al Comparto Difesa e Sicurezza, dichiarati il più delle volte “Vittime della criminalità organizzata” se non “Vittime del dovere”, quando, invece, per le modalità di esecuzione dell’attività criminale, avrebbero meritato di essere dichiarati “Vittime del terrorismo”.

    Chi è Giuseppe Costanza

    Giuseppe Costanza aveva 45 anni quando, dipendente civile del Ministero di Grazia e Giustizia, rimase coinvolto nella strage di Capaci, nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Costanza, pur viaggiando in auto con Falcone, si salvò insieme ai tre uomini della scorta che erano a bordo della terza Croma blindata: Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.

     

    Un anno dopo la strage di Capaci rientrò in servizio alla Procura di Palermo, ma non sapevano cosa farsene di un sopravvissuto. Così lo retrocessero a commesso, poi dopo le sue proteste gli restituirono il quarto livello, ma di fatto era nullafacente. Per anni non è mai stato invitato alle celebrazioni del 23 maggio 1992, né è mai stato citato il suo nome.

    Oggi Giuseppe Costanza è un testimone di quella tragedia che gira l’Italia per raccontare nelle scuole la sua esperienza di uomo di fiducia del giudice e di cittadino. Ha finalmente ottenuto quello che gli spettava di diritto e che con ostinata caparbietà non ha mai smesso di chiedere.

    Data di pubblicazione
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  • Polizia Locale privata della pensione privilegiata

    Titolo
    Polizia Locale privata della pensione privilegiata. Polizia Provinciale dimenticata. Sindacati in festa
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    É quanto emerge dalla norma approvata in via definitiva al senato con la conversione in legge del dl sugli enti locali. Ma per il personale della polizia locale resterà esclusa la possibilità di godere della pensione privilegiata mentre della polizia provinciale non si fa nemmeno menzione. In questo clima molti sindacati di categoria alzano il gran pavese per festeggiare l’evento.

     

    Via libera definitiva all’ Equo Indennizzo e rimborso delle spese di degenza per causa di servizio per il personale della Polizia Locale. L’Aula del Senato ha confermato l’emendamento inserito alla Camera che ripristina, all’articolo 7, i due istituti soppressi con la Riforma Fornero per la generalità dei pubblici dipendenti.

    E qui finiscono le buone notizie se di buone possiamo parlare in quanto, quello che è stato concesso, non è niente altro che quello di cui già beneficiava il personale della Polizia Locale fino all’introduzione del decreto Salva Italia di Mario Monti nel 2011. Di fatto una sorta di reintegro di quanto dovuto, se consideriamo le attività della PL alla stessa stregua delle altre forze di Polizia e i rischi ad esse connesse parimenti alti.

    In realtà la situazione resta pericolosamente a debito in quanto all’Equo Indennizzo e al rimborso delle spese di degenza, non è stato affiancato il reintegro dell’istituto della Pensione Privilegiata, anch’esso spettante alla PL prima del 2011 ma non ristabilito dalle nuove norme. Chiariamo subito che la Pensione Privilegiata non è un capriccio o un privilegio, bensì una tutela economica per il personale colpito da infermità o lesioni avvenuti in servizio e per le rispettive famiglie.

    Peggio ancora è andata alla Polizia Provinciale che in questo momento viene esclusa anche dall’Equo Indennizzo e dal rimborso spese di degenza per causa di servizio. Ciò avviene proprio quando la cronaca ci racconta di un morto e di un ferito grave a seguito di scontro a fuoco. La Polizia Provinciale opera su un vastissimo e più complesso territorio, tratta con armi in quanto uno dei primi presidi anti-bracconaggio ed agisce spesso in zone isolate e periferiche e dove non opera nessun’altra forza. Le qualifiche sono identiche alla PL e l’inquadramento normativo è identico, tuttavia in servizi nei quali saranno chiamati entrambi i soggetti a partecipare, vedremo plasticamente la grave disparità di trattamento proprio in quello che deve essere il loro ambito di tutela.

    In un contesto del genere è difficile comprendere i messaggi di esultanza lanciati da molte sigle sindacali, non tutte, sulla stampa e sui social network. Non riusciamo francamente a capire quale sia il motivo di tale entusiasmo nel momento in cui viene restituito solo una parte di quello che è stato ingenerosamente tolto. Certo sarà favorito l’accesso alle banche dati in uso alle altre forze di polizia e sbloccato il rinnovo del personale, ma francamente ci risulta difficile chiamarle concessioni, sono piuttosto pre-condizioni essenziali per svolgere il lavoro. Le tutele di chi lo svolge sono evidentemente un altro discorso e non considerate prioritarie.

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  • Dopo 60 anni di Unione Europea è tempo di avere un Esercito continentale

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    Dopo 60 anni di Unione è tempo di avere un Esercito Europeo
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    Il 25 marzo saranno passati 60 anni dalla nascita della unione europea ed è maturo il tempo che si apra la strada verso un vero esercito continentale. Proprio ora, in un momento in cui il progetto europeo sembra vacillare, occorre rilanciarlo attraverso una nuova politica di integrazione che passi dalla creazione di una difesa comune.

     

    Fino a qualche tempo fa la sicurezza era garantita dalla Nato, voluta per creare uno sbarramento all’Unione Sovietica e assegnare un ruolo prioritario agli Stati Uniti. Oggi questo scenario è ormai cambiato a livello geopolitico e non solo, con una militarizzazione delle potenze emergenti che ha modificato gli equilibri mondiali. Se infatti gli Stati Uniti continuano a detenere la leadership nel campo della difesa, la Cina negli ultimi cinque anni ha accresciuto la sua spesa nella sicurezza dell’85%, portando la sua spesa totale intorno ai 215 miliardi di dollari all’anno. E mentre gli Usa investono la bellezza di 596 miliardi di dollari ogni anno nella difesa, oggi l’Ue ne spende solo 221 miliardi. Molto meno della metà e con la dubbia efficacia di 28 paesi che investono uno all’insaputa dell’altro; infatti con la metà della spesa degli Usa, l’Europa riesce a esprimere meno del 10% della capacità operativa americana.1

    Dati alla mano, rispetto agli Stati Uniti le Forze Armate dei paesi europei gestiscono stock di armamenti troppo diversificati. Nel 2016, ad esempio, gli Stati membri dell’Unione Europea avevano a disposizione 20 tipi diversi di aerei da combattimento (rispetto ai 6 degli Stati Uniti), 29 tipi di fregate (4 negli Stati Uniti) e 20 tipi di veicoli da combattimento corazzati (2 negli Stati Uniti). Una programmazione, acquisto e gestione più cooperativi di queste risorse razionalizzerebbe le capacità in uso e migliorerebbe notevolmente l’interoperabilità delle forze armate degli Stati membri. Le stime del Munich Security Report 2017 suggeriscono che i governi europei potrebbero risparmiare quasi un terzo di ciò che spendono in attrezzature militari se decidessero di coordinare gli investimenti.2

    A margine di questo processo che tende progressivamente a ridimensionare il ruolo dell’Unione Europea, ulteriore impulso ad aprire la strada alla creazione di un esercito europeo sono state senza dubbio la scissione britannica e, soprattutto, l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca che si è manifestamente dichiarato non più disponibile a impegni di supplenza militare ed economica verso una indecisa Europa. Potrebbe essere dunque arrivato il momento in cui l’Unione europea e in particolare i suoi paesi fondatori, siano costretti a fare il passo verso quell’integrazione militare che, oltre a migliorarne l’apparato ottimizzandone i costi, dia nuovo spessore e solidità al concetto stesso di Unione.

    In altre parole potrebbe essere il volano attorno al quale si riavvia il processo di integrazione, processo arrestatosi a seguito dell’allargamento del numero degli Stati membri. L’ingresso di nuovi Stati nel 2004, in particolare dell’Est Europa, se da una parte rispondeva alle pressioni americane per sottrarli all’influenza russa, dall’altra ha interferito, rallentato ed infine bloccato le dinamiche politiche europee in corso. I meccanismi decisionali che andavano bene per sei Stati e che rallentano con quindici, con ventotto membri si arrestano definitivamente. Lo sapeva bene John Major, allora primo ministro inglese, che aveva teorizzato l’allargamento a est come rimedio contro il rafforzamento dell’Unione Europea che non vedeva di buon occhio (“wider, rather than deeper” diceva, meglio più ampia che più profonda).3

    L’Unione Europea è a un punto di svolta. Per procedere nel progetto europeo viene richiesto di fare finalmente delle scelte lungimiranti e di avere coraggio pensando alle future generazioni: queste scelte, a 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, possono passare dal progetto di Difesa Europea.

    Il Generale Carmine Masiello, consigliere militare del presidente del Consiglio e il Generale Carlo Magrassi, si sono già dichiarati favorevoli al rafforzamento della difesa in chiave europea. Il dubbio resta rispetto alla vera volontà di alcuni Stati di procedere in questa direzione e, in questo senso, la necessità di sciogliere il problema di una governance politica di una difesa Ue rafforzata.4

    • 1Dati tratti libro di Lorenzo Pecchi, Gustavo Piga e Andrea Truppo, Difendere l’Europa, pubblicato dalla Vitale & Co.estratti dall’articolo di Dario Ronzoni “Non c’è Europa senza un esercito europeo” pubblicato il 4 febbraio 2017 su Linkiesta
    • 2Dati ricavati dall’articolo di Jorge Domecq “Ue, più cooperazione in materia di difesa è inevitabile e vantaggiosa per governi e cittadini” pubblicato l’11 marzo 2017 su La Repubblica.
    • 3Citazione tratta da un articolo di Toby Helm “How the Tory right turned against EU enlargement” pubblicato il 21 dicembre 2013 su The Guardian.
    • 4Dall’articolo “I generali in commissione Difesa: rafforzare il piano Ue” pubblicato il 16 marzo 2017 su Public Policy.
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  • XXII giornata memoria delle vittime innocenti delle mafie

    Titolo
    943 Nomi da non dimenticare
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    943 Nomi di vittime innocenti delle mafie: semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell’ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici e amministratori locali uccisi solo per aver compiuto, con rigore e coscienza, il loro dovere.

    943 Nomi qui elencati anno per anno, che oggi vengono scanditi ad alta voce ed ascoltati in silenzio a Locri e nelle 4.000 piazze dove li si vuole ricordare nella Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Questo appuntamento ideato e promosso dall’Associazione Libera di Don Ciotti da 22 anni, per la prima volta si affianca alla commemorazione nazionale istituita dal Parlamento lo scorso 1 marzo.

    943 Nomi da non dimenticare

    Vogliamo ricordarli tutti. Le vittime innocenti delle mafie e delle stragi, quelli di cui conosciamo le storie, quelli di cui sappiamo solo il nome e i tanti dei quali non abbiamo ancora conoscenza.

    1893 EMANUELE NOTARBARTOLO.
    1896 EMANUELA SANSONE.
    1905 LUCIANO NICOLETTI.
    1906 ANDREA ORLANDO.
    1909 JOE PETROSÌNO.
    1911 LORENZO PANEPINTO.
    1914 MARIANO BARBATO. GIORGIO PECORARO.
    1915 BERNARDINO VERRO.
    1916 GIORGIO GENNARO.
    1919 GIOVANNI ZANGÀRA. COSTANTINO STELLA. GIUSEPPE RUMORE. GIUSEPPE MONTICCIOLO. ALFONSO CÀNZIO.
    1920 NICOLÒ ALONGI. PAOLO LI PUMA. CROCE DI GANGI. PAOLO MIRMINA. GIOVANNI ORCEL. STEFANO CARONÌA. CALOGERO FALDETTA. CARMELO MINARDI. SALVATORE VARSALONA. GIUSEPPE ZAFFUTO.
    1921 GAETANO CIRCO. PIETRO PONZO. VITO STASSI. GIUSEPPE CASSARÀ. VITO CASSARÀ. GIUSEPPE COMPAGNA.
    1922 DOMENICO SPATOLA. MARIO SPATOLA. PIETRO PAOLO SPATOLA. SEBASTIANO BONFIGLIO. ANTONINO SCUDERI.
    1924 ANTONINO CIOLÌNO.
    1943 ANTONIO MANCINO.
    1944 SANTI MILISENNA. ANDREA RAIA.
    1945 CALOGERO COMAIANNI. NUNZIO PASSAFIUME. FILIPPO SCIMONE. CALCEDONIO CATALANO. AGOSTINO D’ALESSANDRO. CALOGERO CICERO. FEDELE DE FRANCISCA. MICHELE DI MICELI. MARIO PAOLETTI. ROSARIO PAGANO. GIUSEPPE SCALÌA. GIUSEPPE PUNTARELLO. GIORGIO COMPARETTO. ANGELA TALLUTO.
    1946 ANGELO LOMBARDI. VITTORIO EPIFANI. VITANGELO CINQUEPALMI. IMERIO PICCINI. MASINA PERRICONE SPINELLI. GAETANO GUARINO. PINO CAMILLERI. GIOVANNI CASTIGLIONE. GIROLAMO SCACCIA. GIUSEPPE BIONDO. GIOVANNI SANTANGELO. GIUSEPPE SANTANGELO. VINCENZO SANTANGELO. GIOVANNI SEVERINO. FILIPPO FORNO. GIUSEPPE PULLARA. NICOLÒ AZOTI. FIORENTINO BONFIGLIO. MARIO BOSCONE. PIETRO LORIA. FRANCESCO SASSANO. EMANUELE GRECO. MARIO SPAMPINATO. GIOVANNI LA BROCCA. VINCENZO AMENDUNI. VITTORIO LEVICO.
    1947 ACCURSIO MIRAGLIA. PIETRO MACCHIARELLA. NUNZIO SANSONE. EMANUELE BUSELLINI. MARGHERITA CLESCERI. GIOVANNI GRIFÒ. GIORGIO CUSENZA. CASTRENSE INTRAVÀIA. VINCENZA LA FATA. SERAFINO LASCÀRI. GIOVANNI MEGNA. FRANCESCO VICARI. VITO ALLOTTA. GIUSEPPE DI MAGGIO. FILIPPO DI SALVO. VINCENZO LA ROCCA. VINCENZA SPINA. MICHELANGELO SALVIA. GIUSEPPE CASÀRRUBEA. VINCENZO LO IACONO. GIUSEPPE MANÌACI. CALOGERO CAIOLA. VITO PIPITONE. LUIGI GERONAZZO.
    1948 EPIFANIO LI PUMA. PLACIDO RIZZOTTO. GIUSEPPE LETIZIA. CALOGERO CANGELOSI. MARCANTONIO GIACALONE. ANTONIO GIACALONE. ANTONIO DI SALVO. NICOLA MESSINA. CELESTINO ZAPPONI. GIOVANNI TASQUIER. VITA DORANGRICCHIA.
    1949 CARLO GUARINO. VITO GUARINO. FRANCESCO GULINO. CANDELORO CATANESE. MICHELE MARINARO. CARMELO AGNONE. QUINTO REDA. CARMELO LENTINI. PASQUALE MARCONE. ARMANDO LODDO. SERGIO MANCINI. CARLO ANTONIO PABUSA. GABRIELE PALANDRANI. GIOVAN BATTISTA ALOE. ILARIO RUSSO. GIOVANNI CALABRESE. GIUSEPPE FIORENZA. SALVATORE MESSINA. FRANCESCO BUTIFAR.
    1951 ANTONIO SANGINITI. PROVVIDENZA GRECO. DOMENICA ZUCCO.
    1952 FILIPPO INTILI.
    1955 SALVATORE CARNEVALE. GIUSEPPE SPAGNUOLO.
    1957 PASQUALE ALMERICO. ANTONINO POLLARI.
    1958 VINCENZO DI SALVO. VINCENZO SAVOCA.
    1959 ANNA PRESTIGIACOMO. GIUSEPPINA SAVOCA. VINCENZO PECORARO. ANTONINO PECORARO.
    1960 ANTONINO DAMANTI. COSIMO CRISTINA. PAOLO BONGIORNO. ANTONINO GIANNOLA.
    1961 PAOLINO RICCOBONO.
    1962 ENRICO MATTEI. GIACINTO PULEO.
    1963 GIUSEPPE TESAURO. PIETRO CANNIZZARO. MARIO MALAUSA. SILVIO CORRAO. CALOGERO VACCARO. PASQUALE NUCCIO. EUGENIO ALTOMARE. GIORGIO CIACCI. MARINO FARDELLI.
    1965 COSIMO GIOFFRÈ.
    1966 CARMELO BATTAGLIA. GIUSEPPE BURGIO.
    1967 GIUSEPPE PIANI.
    1968 SALVATORE SUROLO.
    1969 ORAZIO COSTANTINO. GIOVANNI DOMÉ. SALVATORE BEVILACQUA.
    1970 MAURO DE MAURO. RITA CACICIA. ROSA FAZZARI. ANDREA GANGEMI. NICOLINA MAZZOCCHIO. LETIZIA PALUMBO. ADRIANA VASSALLA.
    1971 PIETRO SCAGLIONE. ANTONIO LORUSSO. VINCENZO RICCARDELLI.
    1972 GIOVANNI SPAMPINATO. GIOVANNI VENTRA. DOMENICO CANNATA. PAOLO DI MAIO.
    1973 ALBERTO CALASCIONE. MARIA GIOVANNA ELIA. SALVATORE FEUDALE.
    1974 ANGELO SORINO. EMANUELE RIBOLI. NICOLA RUFFO. GIUSEPPE BRUNO.
    1975 CALOGERO MORREALE. GAETANO CAPPIELLO. FRANCESCO FERLAINO. DOMENICO FACCHINERI. MICHELE FACCHINERI. TULLIO DE MICHELI. MARIO CERETTO. GIUSEPPINA UTANO. CRISTINA MAZZOTTI. ANGELO CALABRÒ. GIUSEPPINA PANGALLO.
    1976 GERARDO D’ARMINIO. GIUSEPPE MOSCARELLI. CATERINA LIBERTI. SALVATORE FALCETTA. CARMINE APUZZO. SALVATORE LONGO. SALVATORE BUSCEMI. FRANCESCO VINCI. ALBERTO CAPUA. VINCENZO RANIERI. VINCENZO MACRÌ. FRANCESCO PAOLO CHIARAMONTE. MARIO CESCHINA. ROCCO CORICA.
    1977 ROCCO GATTO. STEFANO CONDELLO. VINCENZO CARUSO. PASQUALE POLVERINO. GIUSEPPE RUSSO. FILIPPO COSTA. ATTILIO BONINCONTRO. DONALD MACKAY. MARIANGELA PASSIATORE. ADRIANO RUSCALLA.
    1978 UGO TRIOLO. PEPPINO IMPASTATO. ANTONIO ESPOSITO FERRAIOLI. SALVATORE CASTELBUONO. GAETANO LONGO. PAOLO GIORGETTI. PASQUALE CAPPUCCIO. FORTUNATO FURORE. AUGUSTO RANCILIO. PASQUALINO PERRI.
    1979 ALFONSO SGROI. FILADELFIO APARO. MARIO FRANCESE. MICHELE REINA. GIORGIO AMBROSOLI. GIORGIO BORIS GIULIANO. CALOGERO DI BONA. CESARE TERRANOVA. LENIN MANCUSO. GIOVANNI BELLISSIMA. SALVATORE BOLOGNA. DOMENICO MARRARA. VINCENZO RUSSO. ANTONINO TRIPODO. ROCCO GIUSEPPE BARILLÀ. CARMELO DI GIORGIO. PRIMO PERDONCINI. BALDASSARRE NASTASI.
    1980 PIERSANTI MATTARELLA. GIUSEPPE VALARIOTI. EMANUELE BASILE. GIANNINO LOSARDO. PIETRO CERULLI. GAETANO COSTA. CARMELO JANNÌ. DOMENICO BENEVENTANO. MARCELLO TORRE. VINCENZO ABATE. GIUSEPPE GIOVINAZZO. CIRO ROSSETTI. FILOMENA MORLANDO. BRUNO VINCI. GRAZIELLA DE PALO. ITALO TONI. ANTONIO COLISTRA. ADELMO FOSSATI. SILVIO DE FRANCESCO. GIUSEPPE GULLÌ.
    1981 VITO IEVOLELLA. SEBASTIANO BOSIO. LEOPOLDO GASSANI. GIUSEPPE GRIMALDI. VINCENZO MULÈ. DOMENICO FRANCAVILLA. MARIANO VIRONE. GIUSEPPE SALVIA. MARIANO MELLONE. ROSSELLA CASINI. GIUSEPPE CUTTITTA. MICHELE BORRIELLO. FRANCESCA MOCCIA. LORENZO CROSETTO. PIERRE MICHEL. ONOFRIO VALVOLA.
    1982 LUIGI D’ALESSIO. ROSA VISONE. NICOLÒ PIOMBINO. ANTONIO SALZANO. PIO LA TORRE. ROSARIO DI SALVO. GENNARO MUSELLA. GIUSEPPE LALA. DOMENICO VECCHIO. ANTONIO VALENTI. RODOLFO BUSCEMI. MATTEO RIZZUTO. SILVANO FRANZOLIN. LUIGI DI BARCA. SALVATORE RAITI. GIUSEPPE DI LAVORE. ANTONINO BURRAFATO. SALVATORE NUVOLETTA. ANTONIO AMMATURO. PASQUALE PAOLA. PAOLO GIACCONE. VINCENZO SPINELLI. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA. EMANUELA SETTI CARRARO. DOMENICO RUSSO. CALOGERO ZUCCHETTO. CARMELO CERRUTO. SIMONETTA LAMBERTI. GIULIANO PENNACCHIO. ANDREA MORMILE. LUIGI CAFIERO. ANTIMO GRAZIANO. GENNARO DE ANGELIS. ANNAMARIA ESPOSITO. ANTONIO DE ROSA. ELIO DI MELLA. SALVATORE DRAGONE. MARIO LATTUCA. GIOVANNI GAMBINO. FRANCESCO BORRELLI. ALFREDO AGOSTA. FRANCESCO PANZERA. VINCENZO ENEA. GIOVANNI CANTURI. RAFFAELE DELCOGLIANO. ALDO IERMANO. PALMINA GIGLIOTTI. GRAZIELLA MAESANO. MARIA MAESANO. POMPEO PANARO. BORTOLO PESCE. ANTONIO PESCE. FILIPPO SCOTTI.
    1983 GIANGIACOMO CIACCIO MONTALTO. PASQUALE MANDATO. SALVATORE POLLARA. MARIO D’ALEO. GIUSEPPE BOMMARITO. PIETRO MORICI. BRUNO CACCIA. ROCCO CHINNICI. SALVATORE BARTOLOTTA. MARIO TRAPASSI. STEFANO LI SACCHI. SEBASTIANO ALONGI. FRANCESCO IMPOSIMATO. DOMENICO CELIENTO. ANTONIO CRISTIANO. NICANDRO IZZO. GIOACCHINO CRISAFULLI. FRANCESCO BRUNITTO. SALVATORE ZANGARA. PATRIZIA SCIFO. VITTORIO SCIFO. LUIGI CANGIANO. LIA PIPITONE. SIMONE DI TRAPANI. GIUSEPPE BERTOLAMI. DOMENICO CANNATÀ. SERAFINO TRIFARÒ. FRANCESCO PUGLIESE.
    1984 PIPPO FAVA. RENATA FONTE. CRESCENZO CASILLO. GIOVANNI CALABRÒ. COSIMO QUATTROCCHI. FRANCESCO QUATTROCCHI. COSIMO QUATTROCCHI MARCELLO ANGELINI. SALVATORE SCHIMMENTI. GIOVANNI CATALANOTTI. ANTONIO FEDERICO. PAOLO CANALE. GIOVANBATTISTA ALTOBELLI. LUCIA CERRATO. ANNA MARIA BRANDI. ANNA DE SIMONE. GIOVANNI DE SIMONE. NICOLA DE SIMONE. LUISELLA MATARAZZO. MARIA LUIGIA MORINI. FEDERICA TAGLIALATELA. ABRAMO VASTARELLA. PIER FRANCESCO LEONI. SUSANNA CAVALLI. ANGELA CALVANESE. CARMINE MOCCIA. VALERIA MORATELLO. MICHELE BRESCIA. SANTO CALABRESE. ANTIOCO COCCO. VINCENZO VENTO. PIETRO BUSETTA.SALVATORE SQUILLACE. FRANCESCO FABBRIZZI. SALVATORE MELE. BRUNO ADAMI. GIUSEPPE AGATINO CANNAVÒ.
    1985 PIETRO PATTI. GIUSEPPE MANGANO. GIOACCHINO TAGLIALATELA. SERGIO COSMAI. GIOVANNI CARBONE. BARBARA RIZZO ASTA. GIUSEPPE ASTA. SALVATORE ASTA. BEPPE MONTANA. ANTONINO CASSARÀ. ROBERTO ANTIOCHIA. GIUSEPPE SPADA. ANTONIO ENRICO MONTELEONE. GIANCARLO SIANI. BIAGIO SICILIANO. GIUDITTA MILELLA. CARMINE TRIPODI. GRAZIELLA CAMPAGNA. GIUSEPPE MACHEDA. MARIO DIANA. MARCO PADOVANI. GIANLUCA CANONICO. DOMENICO DEMAIO.
    1986 PAOLO BOTTONE. GIUSEPPE PILLARI. FILIPPO GEBBIA. ANTONIO MORREALE. FRANCESCO ALFANO. VITTORIO ESPOSITO. SALVATORE BENIGNO. CLAUDIO DOMINO. FILIPPO SALSONE. ANTONIO SABIA. GIOVANNI GIORDANO. NUNZIATA SPINA. ANTONIO BERTUCCIO. FRANCESCO PRESTIA. DOMENICA DE GIROLAMO. LUIGI STAIÀNO. MARIO FERRILLO. SALVATORE LEDDA. GIOVANNI GARCEA. SEBASTIANO MORABITO. NINO D’UVA. LUIGI AIAVOLASIT.
    1987 GIUSEPPE RECHICHI. ROSARIO IOZIA. GIUSEPPE CUTRUNEO. ROSARIO MONTALTO. ANTONIO CIVININI. CARMELO GANCI. LUCIANO PIGNATELLI. GIOVANNI DI BENEDETTO. COSIMO ALEO. ANIELLO GIORDANO. GIOVANNI MILETO. ANTONINO SCIRTÒ. PAOLO SVEZIA.
    1988 GIUSEPPE INSALACO. GIUSEPPE MONTALBANO. NATALE MONDO. DONATO BOSCIA. GRAZIA SCIMÈ. FRANCESCO MEGNA. ESTER ADA. BERTA CACERES. NYDIA ÉRIKA BAUTISTA DE ARELLANA. AMPARO DEL CARMEN TORDECILLA TRUJILLO. EZEQUIEL FERREYRA. JUAN GERARDI CONEDERA. NAHAMÁN CARMONA. ANGEL DE JESUS RODRIGUEZ HERNANDEZ. BEN MOHAMED NEBIL. ALBERTO GIACOMELLI. ANTONINO SAETTA. STEFANO SAETTA. MAURO ROSTAGNO. LUIGI RANIERI. CARMELO ZACCARELLO. GIROLAMO MARINO. ANIELLO CORDASCO. GIULIO CAPILLI. PIETRO RAGNO. ABED MANYAMI. RAFFAELE ANTONIO TALARICO. MICHELE VIRGA. GIUSEPPE MASCOLO. FRANCESCO SALZANO. GIANFRANCO TREZZI. DOMENICO CARABETTA.
    1989 FRANCESCO CRISOPULLI. GIUSEPPE CARUSO. FRANCESCO PEPI. MARCELLA TASSONE. NICOLA D’ANTRASSI. VINCENZO GRASSO. PAOLO VINCI. SALVATORE INCARDONA. ANTONINO AGOSTINO. IDA CASTELLUCCIO. DOMENICO CALVIELLO. ANNA MARIA CAMBRIA. CARMELA PANNONE. PIETRO GIRO. DONATO CAPPETTA. CALOGERO LORIA. FRANCESCO LONGO. GIOVANBATTISTA TEDESCO. COLIN WINCHESTER. GIACOMO CATALANO. PIETRO POLARA. NICOLINA BISCOZZI. PASQUALE PRIMERANO. PASQUALE MIELE. GIUSEPPE TIZIAN. JERRY ESSAN MASSLO. GAETANO DE CICCO. DOMENICO GUARRACINO. SALVATORE BENAGLIA. GAETANO DI NOCERA. MICHELE PIROMALLI. CLAUDIO VOLPICELLI. ANDREA CORTELLEZZI. ANTONIO D’ONUFRIO. VINCENZO MEDICI.
    1990 GIUSEPPE TALLARITA. NICOLA GIOITTA IACHINO. EMANUELE PIAZZA. GIUSEPPE TRAGNA. GIOVANNI BONSIGNORE. ANTONINO MARINO. ROSARIO LIVATINO. ALESSANDRO ROVETTA. FRANCESCO VECCHIO. ANDREA BONFORTE. GIOVANNI TRECROCI. SAVERIO PURITA. ANGELO CARBOTTI. DOMENICO CATALANO. MARIA MARCELLA. VINCENZO MICELI. ELISABETTA GAGLIARDI. GIUSEPPE ORLANDO. MICHELE ARCANGELO TRIPODI. PIETRO CARUSO. NUNZIO PANDOLFI. ARTURO CAPUTO. ROBERTO TICLI. MARIO GRECO. ROSARIO SCIACCA. GIUSEPPE MARNALO. STEFANO VOLPE. FRANCESCO OLIVIERO. COSIMO DURANTE. ANGELO RAFFAELE LONGO. RAFFAELA SCORDO. CALOGERO LA PIANA. ANTONIO NUGNES. PASQUALE FELICIELLO. MARCO TEDESCHI. FERDINANDO BARBALACE. MARCELLA DI LEVRANO. SERGIO ESPOSITO. ANDREA ESPOSITO. TOBIA ANDREOZZI. ANTONINO PONTARI. PIERO CARPITA. LUIGI RECALCATI. GIUSEPPE SOTTILE. ANTONIO DI BARTOLO. LUIGI VOLPE.
    1991 VALENTINA GUARINO. ANGELICA PIRTOLI. GIUSEPPE SCEUSA. SALVATORE SCEUSA. VINCENZO LEONARDI. ANTONIO CARLO CORDOPATRI. ANGELO RICCARDO. DEMETRIO QUATTRONE. NICOLA SOVERINO. ANDREA SAVOCA. DOMENICO RANDÒ. GIOVANNA SANDRA STRANIERI. ANTONIO SCOPELLITI. LIBERO GRASSI. FABIO DE PANDI. GIUSEPPE ALIOTTO. ANTONIO RAMPINO. SILVANA FOGLIETTA. SALVATORE D’ADDARIO. RENATO LIO. FRANCESCO TRAMONTE. PASQUALE CRISTIANO. STEFANO SIRAGUSA. ALBERTO VARONE. FELICE DARA. VINCENZO SALVATORI. SERAFINO OGLIASTRO. GIUSEPPE GRIMALDI. SALVATORA TIENI. NICOLA GUERRIERO. GIUSEPPE SORRENTI. ANTONIO VALENTI. NUNZIANTE SCIBELLI. VINCENZO GIORDANO. SALVATORE VINCENZO SURDO. GASPARE PALMERI. IGNAZIO ALOISI. ONOFRIO ADDESI. FRANCESCO AUGURUSA. GIUSEPPE PICCOLO. PASQUALE MALGERI. ANTONINO LODOVICO BRUNO. CIRINO CATALANO. MICHELE CIANCI.
    1992 SALVATORE AVERSA. LUCIA PRECENZANO. PAOLO BORSELLINO. ANTONIO RUSSO. FORTUNATO ARENA. CLAUDIO PEZZUTO. SALVATORE MINEO. GIULIANO GUAZZELLI. GIOVANNI FALCONE. FRANCESCA MORVILLO. ROCCO DICILLO. ANTONIO MONTINARO. VITO SCHIFANI. PAOLO BORSELLINO. AGOSTINO CATALANO. EDDIE WALTER COSINA. EMANUELA LOI. VINCENZO LI MULI. CLAUDIO TRAÌNA. RITA ÀTRIA. PAOLO FICALÒRA. LUIGI SÀPIO. EGIDIO CAMPANIELLO. GIORGIO VILLÀN. PASQUALE DI LORENZO. GIOVANNI PANUNZIO. GAETANO GIORDANO. GIUSEPPE BORSELLINO. ANTONIO TAMBORINO. MAURO MANIGLIO. RAFFAELE VITIELLO. EMANUELE SAÙNA. GIOVANNI LIZZIO. ANTONIO DI BONA. GIOVANNI CARNICELLA. ANTONIO MUTO. PASQUALE AURIEMMA.
    1993 BEPPE ALFANO. LOLLÒ CARTISANO. PASQUALE CAMPANELLO. VINCENZO D’ANNA. VINCENZO VITALE. GENNARO FALCO. NICOLA REMONDINO. DOMENICO NICOLÒ PANDOLFO. MAURIZIO ESTATE. FABRIZIO NENCIONI. ANGELA FIUME. NADIA NENCIONI. CATERINA NENCIONI. DARIO CAPOLICCHIO. DOMENICO NICITRA. CARLO LA CATENA. STEFANO PICERNO. SERGIO PASOTTO. ALESSANDRO FERRARI. MOUSSAFIR DRISS. PINO PUGLISI. RAFFAELE DI MERCURIO. ANDREA CASTELLI. ANGELO CARLISI. CALOGERO ZAFFUTO. RICCARDO VOLPE. ANTONINO VASSALLO. FRANCESCO NAZZARO. GIORGIO VANOLI. LUIGI IANNOTTA. ANTONINO SPARTÀ. SALVATORE SPARTÀ. PIETRO VINCENZO SPARTÀ. GIUSEPPE MARINO. ANTONIO MAZZA. FABIO GAROFALO.
    1994 VINCENZO GAROFALO. ANTONINO FAVA. PEPPE DIANA. ILARIA ALPI. MIRAN HROVATIN. LUIGI BODENZA. IGNAZIO PANEPINTO. MARIA TERESA PUGLIESE. GIOVANNI SIMONETTI. SALVATORE BENNICI. CALOGERO PANEPINTO. FRANCESCO MANISCALCO. NICHOLAS GREEN. MELCHIORRE GALLO. GIUSEPPE RUSSO. COSIMO FABIO MAZZOLA. LILIANA CARUSO. AGATA ZUCCHERO. LEONARDO SANTORO. PALMINA SCAMARDELLA. ANTONIO NOVELLA. FRANCESCO ALOI. FRANCESCO BRUNO. SAVERIO LIARDO. ANTONIO D’AGOSTINO.
    1995 FRANCESCO MARCONE. SERAFINO FAMÀ. GIOACCHINO COSTANZO. PETER IWULE ONJEDEKE. FORTUNATO CORREALE. ANTONINO BUSCEMI. GIUSEPPE MONTALTO. GIUSEPPE CILIA. CLAUDIO MANCO. ANTONIO BRANDI. GIAMMATTEO SOLE . GENOVESE PAGLIUCA. PIETRO SANUA. PIERANTONIO SANDRI. GIUSEPPE GIAMMONA. GIOVANNA GIAMMONA. FRANCESCO SAPORITO. NATALE DE GRAZIA. CESARE BOSCHIN. MICHELE CIARLO. GIOVANNI CARBONE. MARCELLO PALMISANO.
    1996 GIUSEPPE DI MATTEO. FRANCESCO TAMMONE. GIUSEPPE PUGLISI. ANNAMARIA TORNO. GIOVANNI ATTARDO. DAVIDE SANNINO. SANTA PUGLISI. SALVATORE BOTTA. SALVATORE FRAZZETTO. GIACOMO FRAZZETTO. MARIA ANTONIETTA SAVONA. RICCARDO SALERNO. GIOACCHINO BISCEGLIA. ROSARIO MINISTERI. CALOGERO TRAMÙTA. CELESTINO FAVA. ANTONINO MOIO. RAFFAELE PASTORE. ANTONINO POLIFRONI. SALVATORE MANZI. CONCETTA MATARAZZO. MICHELE CAVALIERE. FRANCESCO GIORGINO. NICOLA MELFI.
    1997 GIUSEPPE LA FRANCA. CIRO ZIRPOLI. GIULIO CASTELLINO. AGATA AZZOLINA. RAFFAELLA LUPOLI. SILVIA RUOTOLO. ANGELO BRUNO. FRANCESCO MARZANO. ANDREA DI MARCO. AMBROGIO MAURI. VITTORIO REGA.
    1998 INCORONATA SOLLAZZO. MARIA INCORONATA RAMELLA. ERILDA ZTAUSCI. SALVATORE DE FALCO. ROSARIO FLAMINIO. ALBERTO VALLEFUOCO. GIUSEPPINA GUERRIERO. LUIGI IOCULANO. DOMENICO GERACI. ANTONIO CONDELLO. MARIA ANGELA ANSALONE. GIUSEPPE MARIA BICCHERI. GIUSEPPE MESSINA. GRAZIANO MUNTONI. GIOVANNI GARGIULO. GIOVANNI VOLPE. ORAZIO SCIASCIO. GIUSEPPE IACONA. DAVIDE LADINI. SAVERIO IERACE. ANTONIO FERRARA.
    1999 SALVATORE OTTONE. ROSARIO SALERNO. STEFANO POMPEO. FILIPPO BASILE. HISO TELARAY. MATTEO DI CANDIA. VINCENZO VACCARO NOTTE. LUIGI PULLI. RAFFAELE ARNESANO. RODOLFO PATERA. ENNIO PETROSINO. ROSA ZAZA. ANNA PACE. MARCO DE FRANCHIS. FRANCESCO SALVO.
    2000 ANTONIO LIPPIELLO. SALVATORE VACCARO NOTTE. ANTONIO SOTTILE. ALBERTO DE FALCO. FERDINANDO CHIAROTTI. FRANCESCO SCERBO. GIUSEPPE GRANDOLFO. DOMENICO GULLACI. MARIA COLANGIULI. HAMDI LALA. GAETANO DE ROSA. SAVERIO CATALDO. DANIELE ZOCCOLA. SALVATORE DE ROSA. GIUSEPPE FALANGA. LUIGI SEQUINO. PAOLO CASTALDI. GIANFRANCO MADIA. VALENTINA TERRACCIANO. RAFFAELE IORIO. FERDINANDO LIGUORI.
    2001 TINA MOTOC. MICHELE FAZIO. CARMELO BENVEGNA. STEFANO CIARAMELLA. ANTONIO DELLA BONA.
    2002 FEDERICO DEL PRETE. TORQUATO CIRIACO. HUSAN BALIKÇI. ANTONIO PETITO. GIUSEPPE FRANCESE. FRANCESCO SANTANIELLO.
    2003 DOMENICO PACILIO. GAETANO MARCHITELLI. CLAUDIO TAGLIALATELA. PAOLINO AVELLA. MICHELE AMICO. GIUSEPPE ROVESCIO. ANTONIO VAIRO. PAOLO BAGNATO.
    2004 BONIFACIO TILOCCA. ANNALISA DURANTE. STEFANO BIONDI. PAOLO RODÀ. GELSOMINA VERDE. DARIO SCHERILLO. MATILDE SORRENTINO. FRANCESCO ESTATICO. FABIO NUNNERI. MASSIMILIANO CARBONE. ANTONIO LANDIERI. FRANCESCO GRAZIANO. ANTONIO GRAZIANO. ANTONIO MAIORANO. ATTILIO MANCA.
    2005 FRANCESCO ROSSI. ATTILIO ROMANÒ. FRANCESCO FORTUGNO. GIUSEPPE RICCIO. DANIELE POLIMENI. GIANLUCA CONGIUSTA. PEPE TUNEVIC. EMILIO ALBANESE. FORTUNATO LA ROSA.
    2006 SALVATORE BUGLIONE. DANIELE DEL CORE. LORIS DI ROBERTO. RODOLFO PACILIO. MICHELE LANDA. ANTONIO PALUMBO. ANNA POLITIKOVSKAJA. GIUSEPPE D’ANGELO. LUCA COTTARELLI.
    2007 LUIGI SICA. FRANCESCO GAITO. UMBERTO IMPROTA. GIUSEPPE VEROPALUMBO. LUIGI RENDE. CARMELA FASANELLA. ROMANO FASANELLA. DOMENICO DE NITTIS. FILIPPO SALVI.
    2008 MARIO COSTABILE. DOMENICO NOVIELLO. MARCO PITTONI. RAFFAELE GARGIULO. RAFFAELE GRANATA. GIUSEPPE MINOPOLI. LORENZO RICCIO. RAFFAELE MANNA. SAMUEL KWAKU. CRISTOPHER ADAMS. ERIC AFFUM YEBOAH. KWAME ANTWI JULIUS FRANCIS. EL HADJI ABABA. ALEX GEEMES. FRANCESCO ALIGHIERI. GABRIELE ROSSI. ANTONIO CIARDULLO. ERNESTO FABOZZI.
    2009 DOMENICO (DODÒ) GABRIELE. PETRU BIRLANDEANU. GAETANO MONTANINO. NICOLA NAPPO. LEA GAROFALO. ANTONIO CANGIANO.
    2010 TERESA BUONOCORE. ANGELO VASSALLO. GIANLUCA CIMMINIELLO. CARMINE CANNILLO.
    2011 VINCENZO LIGUORI. GIUSEPPE MIZZI. CARLO CANNAVACCIUOLO. MARIA CONCETTA CACCIOLA.
    2012 ANDREA NOLLINO. PASQUALE ROMANO. FILIPPO CERAVOLO.
    2014 NICOLA (COCÒ) CAMPOLONGO. DOMENICO PETRUZZELLI. VINCENZO FERRANTE. ROBERTO MANCINI. FLORI MESUTI.
    2015 DOMENICO MARTIMUCCI. GENNARO CESARANO. MAIKOL GIUSEPPE RUSSO.
    2016 SILVIO MIRARCHI. CIRO COLONNA.

    A loro e a tutte le vittime innocenti delle quali non abbiamo ancora notizie, va la nostra memoria e il nostro impegno.


    Compilazione realizzata dall’associazione Libera


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    21 marzo 2017: XXII giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
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  • Vittime del dovere ed equiparati sentenza della Cassazione

    Titolo
    Vittime del dovere ed equiparati: Vittoria! Finalmente la sentenza della Cassazione tanto attesa
    Contenuto della pagina

    Di Maurizio Guerra

     

    16 novembre 2016 ore 10. Sono a Perugia e sto per entrare in Tribunale, quando ricevo una telefonata. Sul display del mio cellulare appare avv. Andrea Bava. Rispondo. Dall’altra parte una risata e un grido: “Mauri, abbiamo vinto! La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ci ha dato ragione e confermato la competenza del Giudice Ordinario Sezione Lavoro per il contenzioso delle vittime del dovere e gli equiparati”.

    In quel momento la mia gioia è incontenibile e urlo un “Evvai!” attirando inevitabilmente l’attenzione dei presenti, ai quali vorrei regalare uno dei famosi “baci” della loro città.

    Forse solo chi ha vissuto da anni, come me e il Collega, l’annosa questione della giurisdizione per questo tipo di contenzioso può immediatamente apprezzare il grande risultato ottenuto.

    La giurisprudenza era divisa; da una parte c’erano giudici convinti che a decidere il contenzioso per le vittime del dovere e gli equiparati competesse alla Giustizia Amministrativa (Tar e Consiglio di Stato) e dall’altra, quelli che, sollecitati da pochi “coraggiosi” avvocati, affermavano la competenza del Giudice ordinario della Sezione lavoro.

    In questi anni, dunque, prima ancora di discutere sul diritto ai benefici, abbiamo dovuto lottare per affermare la competenza giurisdizionale del Giudice del Lavoro. Una lotta senza risparmio, in cui l’Avvocatura, costituendosi in difesa per i Ministeri, ha resistito con le unghie e con i denti, considerati i favorevoli risultati ottenuti dinanzi al TAR, decisamente orientato a una lettura, a dir poco, più restrittiva della speciale normativa. In questo modo noi avvocati siamo stati costretti ad approfondire sempre più la tematica per trovare soluzioni ben argomentate in diritto da fornire ai giudici. Giudici, va riconosciuto, che nella stragrande maggioranza, sia in primo grado che in appello, si sono mostrati attenti, senza farsi influenzare dalle difese della Parte Pubblica, affrontando con passione la delicata questione di giurisdizione. E oggi, alla luce della recente decisione delle Sezioni Unite della Cassazione, confermativa di precedenti orientamenti, anche loro possono dire: avevamo ragione!

    Dei vantaggi di questo risultato ne potranno beneficiare tutti coloro che vogliono far accertare giudizialmente il loro diritto ai benefici assistenziali, quali vittime del dovere o equiparati. Si potranno impugnare i decreti negativi anche a distanza di anni dalla loro notifica, contrariamente al Tar a cui si può ricorrere al massimo entro 60 giorni. Non solo. A differenza del Tar, che accerta unicamente l’illegittimità degli atti, davanti al Tribunale ordinario si può chiedere al Giudice del Lavoro di riesaminare i fatti di servizio e le invalidità, accertarne il collegamento con le particolari condizioni ambientali e operative, e farle quantificare percentualmente ai fini dell’erogazione dei conseguenti benefici. Il tutto, con la garanzia di tre gradi di giudizio e con sentenze che, se favorevoli, riconosceranno subito la qualifica di vittima e il conseguente diritto ai benefici. Insomma, anche il personale appartenente al Comparto Difesa, Sicurezza e Soccorso Pubblico d’ora in poi avrà pacificamente la possibilità di intraprendere il contenzioso giudiziario davanti al Giudice del Lavoro, con la garanzia del contraddittorio pieno tra le parti, poste in posizione di assoluta parità.

    E allora colgo l’occasione per complimentarmi anche pubblicamente con il Collega Bava, con cui ho avuto modo di confrontarmi più volte sulla questione e con cui ho condiviso ansia, tensione e speranza per i risultati finali, essendo stati chiamati entrambi a discutere la questione di giurisdizione dinanzi alle Sezioni Unite della Cassazione alternandoci alle pubbliche udienze (lui a settembre e novembre e io a ottobre), con la consapevolezza che le decisioni, inevitabilmente, avrebbero tracciato il futuro del contenzioso.

    Mi piace allora condividere con tutti voi lo spirito di collaborazione e solidarietà che si è creato nel tempo; mettendo da parte i naturali interessi particolaristici che ogni professionista deve avere, dinanzi al problema comune abbiamo fatto squadra, scambiandoci idee, impressioni, sentenze e suggerimenti, ben consci delle responsabilità che la nostra attività ci aveva chiamato ad affrontare.

    E il risultato finale ci ha premiato, a dimostrazione, ancora una volta, che in ogni campo della vita, stando uniti e collaborando si possono raggiungere risultati apparentemente impossibili.

    Data di pubblicazione
    Immagine principale
  • Insegnare Falcone nelle scuole

    Titolo
    Strage di Capaci: a che serve studiare gli Ittiti se non conosci Falcone?
    Contenuto della pagina

    Nella mia classe c’è uno di quei lenzuoli con la famosa foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, scattata da Tony Gentile, con la scritta “Non li hanno uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe”. L’ho appeso nei primi giorni di lezione. Nessuno dei miei alunni sapeva chi fossero “quei due signori coi baffi che ridono”. Nessuno sapeva cosa significasse quella data stampata sul lenzuolo: 23 maggio e 19 luglio 1992. I miei alunni sono nati quindici anni dopo quelle stragi.

    E’ come se qualcuno, quando io frequentavo le elementari, mi avesse chiesto della strage del Vajont avvenuta il 9 ottobre del 1963 o dell’incarcerazione di Nelson Mandela.

    Avevo studiato il Veneto senza che nessuno mi parlasse di Longarone, di quello che era successo a causa di quella frana: erano morte 2000 persone ma sul libro di geografia non c’era una riga. Eppure sapevo benissimo i fiumi, i confini, i capoluoghi della Regione. Alla scuola bastava quello alla mia vita no.

    Era stato un prete, don Mario, a trasmettere nella vecchia sala cinematografica dell’oratorio qualche anno più tardi, il film di Renzo Martinelli sul Vajont.

    Nessuno oggi può pensare che i nostri ragazzi conoscano quello che è successo in Italia nel 1992 se non vi è un passaggio del testimone, se non abbiamo un esercito di maestri che conosce quel pezzo di storia di là del semplice ricordo del “mi ricordo dov’ero quel giorno”.

    Sul libro di geografia della quinta elementare quando si parla di Sicilia, allora come oggi, non si cita la mafia. Non si parla nemmeno di Capaci e di via D’Amelio. Quando a scuola qualche buon’anima di insegnante affronta questi argomenti, vanno tutti a finire in quell’ “Educazione alla cittadinanza” che contiene di tutto e di più.

    Fare memoria del nostro passato in questo Paese è lasciato alla buona volontà.

    Stamattina (23 maggio 2016, ndr) 50mila studenti in otto piazze italiane ricorderanno Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. E gli altri 7.000.000 di ragazzi e 650 mila circa insegnanti stamattina che faranno in classe?

    Il 1992 fa parte della nostra storia, è una ferita che sanguina ancora sul corpo del nostro Paese. Abbiamo scuole dedicate ai due giudici, piazze, vie eppure qualcuno stamattina (il giorno dell'anniversario della strage di Capaci, ndr) le attraverserà come se niente fosse, come se quel 23 maggio fosse solo un ricordo.

    Quel lenzuolo dovrebbe essere appeso in ogni classe o almeno in ogni scuola.

    Accanto alla fotografia del Presidente della Repubblica ci dovrebbero essere quei due volti che proprio perché amavano lo Stato sono stati ammazzati da una parte di esso e dalla mafia.

    Lasciare che quella storia sia solo materia per insegnanti appassionati è un errore che non possiamo permetterci: vanno modificate con urgenza le nostre le indicazioni nazionali per il curriculo della scuola primaria e secondaria. A che servirà altrimenti ai nostri futuri cittadini conoscere i confini della Sicilia, gli Assiri e i Babilonesi, la democrazia ateniese senza far camminare le idee di Falcone e Borsellino sulle loro gambe?

     


    Ringraziamo Alex Corlazzoli, maestro di scuola e giornalista, e Il Fatto Quotidiano per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 23/05/2016 ed è consultabile direttamente sul sito della testata a questo link

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Le amare riflessioni di Alex Cortazzoli, maestro di scuola prima che giornalista, sulla storia d'Italia studiata nelle aule del primo ciclo d'istruzione.
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  • Antonio Brunetti

    Titolo
    La storia del maresciallo Antonio Brunetti, protagonista silenzioso della lotta al terrorismo
    Contenuto della pagina

    Un piccolo grande pezzo di storia moderna risiede a Imperia e porta il nome di Antonio Brunetti. Il maresciallo dei carabinieri Brunetti, unica doppia medaglia d'oro vivente per il valore e come vittima del terrorismo, fu scelto nel 1974 dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per far parte del suo nucleo speciale segreto contro le terribili Brigate Rosse

    Nucleo composto da 31 uomini di cui Brunetti è ancora oggi prezioso testimone che ha collaborato in prima persona a innumerevoli azioni tra le quali l'arresto dei capi storici Renato Curcio e Alberto Francheshini.

    Oggi il maresciallo, classe 1935, vive a Imperia e ha fatto della sua esistenza una continua testimonianza degli anni bui, quelli del terrorismo. Conserva in maniera ordinata e precisa ricordi, documenti, foto e soprattutto memoria dei suoi compagni, gli altri 30 uomini del generale che per quarant'anni hanno tenuto segreto il loro operato a difesa dello stato.

    Parte di questo archivio unico è pubblicato nel libro dello stesso Brunetti: "I 31 uomini del Generale", una memoria di chi, come dice lui stesso, "…ha vissuto sulla propria pelle un periodo triste del nostro Paese".

    Il maresciallo sta portando la sua testimonianza e il suo libro in giro per l'Italia. L'obiettivo è quello di continuare a raccontare e a fare partecipi tutti i possibili interessati alla storia, a una sua parte troppo spesso dimenticata o tralasciata nei programmi scolastici, ma che ha segnato profondamente l'Italia.

    Siamo andati a trovare Brunetti e la moglie nella loro casa ricca, anch'essa, di storia e di riconoscimenti al maresciallo rilasciati dallo Stato italiano, da sua santità papa Giovanni Paolo II e anche dalla vicina Francia.

    Brunetti aprendo il suo libro ci legge subito qualcosa d'importante, la scelta di devolvere tutti i proventi. A chi e perché?

    "Ho voluto dedicare tutto il ricavato di questo mio libro, ovvero tutto quello che mi spetta come autore e che mi manda la casa editrice, all'ONAOMAC, associazione che si prende cura degli orfani militari dalla giovane età fino al conseguimento della laurea. Ho voluto inoltre dedicare il mio scritto a mia figlia Daniela, tragicamente scomparsa. In suo nome cerco di onorare questi figli che non hanno più i loro padri. Li seguiamo passo dopo passo fino alla maturità, alcuni di questi giovani entrano poi nell'Arma, nelle varie scuole se dotati ovviamente di determinate caratteristiche fisico attitudinali”.

    "I 31 uomini del Generale", una storia complessa con tante sfaccettature, come la riassumerebbe?

    "Dico questo: ritengo il mio libro importantissimo per i ragazzi. È importantissimo perché racconta la storia vissuta da un protagonista che ha occupato, dal primo all'ultimo giorno di servizio, una sedia molto scottante. Si spiega cosa è accaduto in un momento triste della storia del nostro Paese, ovvero gli anni bui, gli anni cosiddetti di piombo. Per poter scrivere una memoria, una parte storica importante, fatti vissuti da un protagonista bisogna vivere la vicenda altrimenti ciò che si scrive non è valido, secondo il mio modo di vedere".

    31 uomini che hanno tenuto tutto segreto per circa quarant'anni…

    "Sì assolutamente. Ora purtroppo non siamo più 31, molti non ci sono più e siamo rimasti circa 10. Di questi sono riuscito a contattarne 4, uno a Parma, uno a Reggio Emilia e due a Genova. Molti non vogliono più parlare di quel periodo triste della storia vissuto in prima persona, io invece ho voluto vincere questo stato d'animo per dare la possibilità ai nostri ragazzi, che sono molto interessati, di conoscere ciò che è accaduto. Non è vero che i giovani non seguono o altro, anzi è il contrario. Io personalmente ho tenuto e tengo conferenze in scuole medie, superiori e università e ho piacere di parlare con gli studenti così come mi accade con magistrati, avvocati, colleghi dell'arma e non solo per rendere loro noto cosa abbiamo passato. L'intento è che conoscendo ciò che è stato non si ripeta mai più nulla di simile, guai sarebbe la fine. Io ho visto troppo sangue sulle nostre strade, tante famiglie piangere e tanti bambini che hanno perso i genitori".

    Il suo racconto farà parte del Premio letterario Piersanti Mattarella 2019, una soddisfazione in più?

    "Sono veramente onorato che il mio libro sia stato preso in considerazione da questo importante premio letterario Piersanti Mattarella. Sono molto legato a Piersanti Mattarella perché il suo riconoscimento è suffragato da una legge, la 206 del 2004, che riguarda le vittime di terrorismo e di mafia ed è la stessa che è stata riconosciuta a me. Per me poter essere stato incluso nel Premio Mattarella è un qualcosa di altissimo perché mi ha fatto rendere conto che non tutte le persone hanno dimenticato i protagonisti della storia. Sono felice inoltre di aver ricevuto pochi giorni fa una lettera del capo dello stato che si onora di scrivere a una persona che ha partecipato a uno dei servizi più importanti della nostra storia".

     


    Ringraziamo Lorenzo Bonsignorio e ImperiaNews.it per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato pubblicato su ImperiaNews del 11/08/2019 ed è consultabile direttamente sul sito della testata a questo link

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    "Onorato di aver lavorato con Dalla Chiesa, abbiamo difeso il Paese nei suoi anni più bui". Intervista all'autore del libro memoria "I 31 uomini del Generale".
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    La storia del maresciallo Antonio Brunetti, protagonista silenzioso della lotta al terrorismo
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    Intervista all'autore del libro memoria "I 31 uomini del Generale"
  • michele liguori vittima del dovere

    Titolo
    Nel 2014 fa moriva Michele Liguori, eroe della Terra dei fuochi, oggi Vittima del Dovere
    Contenuto della pagina

    di Maurizio Patriciello

     

    Aveva 59 anni quando moriva Michele Liguori. Tenente dei vigili urbani di Acerra, nel Napoletano, era stato assegnato al pool ambientale; pool formato da un solo componente: lui. Non si scoraggiò ma con i pochi mezzi a disposizione si mise a lavorare alacremente.

    Michele amava la sua terra, la terra dei suoi padri, la terra dei suoi figli. E in quella terra da qualche anno accadevano cose inspiegabili. Incredibili. Quella terra si andava trasformando, sotto gli occhi di tutti, nella discarica di tonnellate di rifiuti industriali provenienti dal nord Italia. Michele iniziò a indagare, perlustrare, denunciare. A richiamare l’attenzione delle istituzioni.

    Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Non una volta sola, sia da chi aveva interessi occulti che da amici preoccupati per i rischi che correva, si sentì dire: « Ma chi te lo fa fare?». Chi te lo fa fare a perdere la pace? A rovinarti la salute? La rassegnazione è una brutta bestia. Quando la gente perde la speranza, quando non crede più a nessuno; quando trascina stancamente le giornate, e si convince che “non c’è più un giusto, nemmeno uno”.

    Al tenente Liguori quelle parole non piacevano, gli facevano più male di una pugnalata al cuore. Non era un ingenuo, Michele, sapeva bene che il via vai illegale dei rifiuti industriali era redditizio per i delinquenti e pericoloso per chi tentava di bloccarlo. Sapeva bene che la camorra da sola avrebbe potuto ben poco se non avesse avuto l’aggancio delle istituzioni, che a loro volta, sotto banco, intessevano rapporti con certi colletti bianchi, ormai insozzati.

    Michele sapeva che per mettere a tacere un uomo di buona volontà basta fargli terra bruciata intorno, isolarlo, metterlo alla berlina. Sapeva tutto il tenente di Acerra ma sentiva di dover assolvere a una missione. La sua terra veniva violentata, inquinata, avvelenata. La sua gente si intristiva, si ammalava, moriva. No, non c’era tempo per pensare a se stessi. Non era possibile tirare i remi in barca. Ai diritti si può anche rinunciare ai doveri no.

    Non potevo far finta di non vedere, a me i vigliacchi non piacciono” rispose a un giornalista con un fil di voce sul letto di morte. Tutti sapevano nomi e cognomi degli inquinatori di Acerra; tutti conoscevano i tre fratelli Pellini, due imprenditori nel settore dei rifiuti e uno, addirittura, carabiniere. Loro, milionari, potevano permettersi una schiera di avvocati coadiuvati da schiere di periti. E l’Italia, all’epoca, non aveva nemmeno una legge sugli ecoreati capace di incastrare gli avvelanatori. E poi c’era quella benedetta – o maledetta? – prescrizione, che, come un balsamo, al momento opportuno, correva in aiuto non ai maltrattati ma ai maltrattatori.

    Michele, però, è testardo. Non molla. Non si rassegna. Non indietreggia. Come attratto dal canto di una sirena, va e viene dalle campagne. Di quelle campagne conosce ogni sito, ogni angolo, ogni segreto. Fotografa, parla, denuncia. Chiede aiuto. Gli servirebbero più uomini, più mezzi, più collaborazione.

    Il maresciallo Liguori è uno zelante servitore dello Stato. Talmente zelante che, pochi anni dopo, sarà sollevato dall’incarico e trasferito al castello baronale, uno di quei posti agognati da tanti impiegati pigri e negligenti; dove non si corrono rischi e lo stipendio è assicurato. In parole povere, il tenente Liguori, viene messo a tacere.

    I miasmi tossici respirati durante le lunghe perlustrazioni, i veleni che andava a scavare con le proprie mani, hanno portato, però, le loro conseguenze. Michele si ammala di due tumori. Lotta contro il mostro che lo divora lentamente. Spera di guarire, si illude, poi capisce che i giorni si fanno brevi. Alla vigila di san Sebastiano martire, patrono della polizia locale, Michele rende la sua anima a Dio.

    I fratelli Pellini sono stati riconosciuti colpevoli. La cassazione ha detto l’ultima parola. Michele ha vinto la battaglia. Anche grazie a lui la “terra dei fuochi” campana ha reso un servizio a tutta l’Italia. Oggi tante regioni vanno scoprendo i nostri stessi problemi. Terra dei fuochi infatti “non è un luogo ma un fenomeno”. Un fenomeno talmente grave e pericoloso per l’ambiente e la salute da spingere papa Francesco a donare al mondo e alle future generazioni l’importantissima enciclica “Laudato si’”.

    Grazie all'ostinazione della moglie Maria Di Buono e del figlio Emiliano, unita al supporto del Fuori Coro e del nostro Studio, Michele Liguori è stato riconosciuto Vittima del Dovere nel 2018.


    Ringraziamo Maurizio Patriciello per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro, attualizzandolo. L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero de l’Avvenire del 19/01/2018 ed è consultabile direttamente sul sito della testata all’ indirizzo: https://goo.gl/gXVBbm


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Tenente dei vigili urbani di Acerra, nel Napoletano, era stato assegnato al pool ambientale. Lottò con grande coraggio per difendere l'Italia dagli inquinatori.
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    Nel 2014 fa moriva Michele Liguori, eroe della Terra dei fuochi, oggi Vittima del Dovere
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    Nel 2014 fa moriva Michele Liguori, eroe della Terra dei fuochi, oggi Vittima del Dovere
    Data di aggiornamento
  • Brigadiere lombardini ucciso da terroristi

    Titolo
    Il Brigadiere Lombardini ucciso da un commando di terroristi. Argelato non lo ha dimenticato
    Contenuto della pagina

    Dal Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri

     

    Foto brigadiere Andrea Lombardini e Gennaro Sciarretta

    Il 5 dicembre 1974, a seguito di una segnalazione telefonica pervenuta alla stazione dei Carabinieri di Castello d’Argile, in provincia di Bologna, il comandante, Brigadiere Andrea Lombardini (quel giorno a riposo settimanale), rintracciava insieme al Carabiniere Gennaro Sciarretta, un furgone sospetto fermo su una strada di campagna nei pressi del cimitero di Argelato.

     

    Avvicinatosi per controllarne i tre occupanti, veniva attinto mortalmente da numerosi colpi esplosi dall’interno della cabina, presumibilmente con un mitra “Sten”, una pistola “Bernardelli” è una “Beretta”, entrambe calibro 7,65. Il Carabiniere Sciarretta, trovato riparo dietro l’automezzo militare, in direzione del quale i malviventi esplodevano altri colpi, reagiva con il Moschetto Automatico Beretta (M.A.B.) in dotazione, facendo partire una raffica di 9 colpi che attingeva la parte anteriore del furgone.

    I malfattori, illesi, avvedutisi del inceppamento delle proprie armi, uscivano dal mezzo arrendendosi ma, approfittando di un momento di distrazione del militare che si era voltato verso il proprio comandante morente, gli si lanciavano addosso e, dopo una violenta colluttazione, riuscivano a disarmarlo e a tramortirlo, colpendolo al capo con il calcio dell’arma. Successivamente, sottrattagli anche la pistola d’ordinanza, si allontanavano a bordo dell’automezzo militare trovato abbandonato poco lontano insieme al M.A.B. Il Carabiniere Sciarretta fortunatamente riportava lesioni non gravi.

    Le indagini permettevano di appurare che l’intervento dei militari aveva frustrato il piano di criminali, successivamente arrestati e identificati quali appartenenti alle “Brigate Rosse”, intenzionati a rapinare il portavalori di uno Zuccherificio della vicina San Giorgio di Piano per “autofinanziare” l’organizzazione.

    Assassini di Argelato

    Alla memoria del Brigadiere Lombardini verrà Concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare e la Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria nonché la Medaglia d’Oro di Vittima del terrorismo. Il Carabiniere Sciarretta sarà insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare, concessa in data 22 aprile 1975. 

     

    Brigadiere Andrea Lombardini biografia

    Nato a Borghi (PC) il 23 aprile 1940, si arruola nell’arma nel 1957 come Carabiniere, Ottenendo la promozione a Vice Brigadiere nel 1970 e a brigadiere nel 1972. Presta servizio in numerosi reparti di Puglia, Emilia Romagna, Veneto e Lazio. Dal 1974 è Comandante della stazione di Castello d’Argile (BO). Lascia la moglie. È decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria concessa il 22 aprile 1975, Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria conferita in data 30 dicembre 1974 e Medaglia d’Oro di vittima del terrorismo. Al suo nome è intitolata la sede del Comando Provinciale Carabinieri di Forlì, un cippo commemorativo in Via Macero ad Argelato e il parco “Brigadiere Lombardini” a Castello d’Argile.

     


    Ringraziamo la direzione di Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato pubblicato sullo Speciale 9 Maggio del II anno della rivista ed è consultabile direttamente sul sito della testata cliccando qui.


     

    Data di pubblicazione
    Riassunto
    Morire nel proprio giorno di riposo. La tragica fine del Brigadiere dei Carabinieri Lombardini.
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