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Esposto per 20 anni a radiazioni senza alcuna protezione, infermiere riconosciuto Vittima del Dovere

La retorica dell’eroe

Li chiamavano “angeli”. Sui quotidiani, nei titoli dei telegiornali, nelle conversazioni sui social network. Nel pieno della pandemia di Covid-19, gli infermieri erano per tutti degli “eroi”.

Ma a loro, agli “eroi”, quella retorica non piaceva: serviva solo a nascondere le condizioni in cui dovevano lavorare. Mascherine e guanti contati, personale ridotto, lo stesso camice indossato per tutto il giorno lungo infiniti turni massacranti.

Erano l’ultimo baluardo contro la pandemia e dovevano affrontarla disarmati. 
Non erano i primi e, c’è da scommetterci, non saranno gli ultimi.

In prima linea, senza difese

È il 1976 quando G.B., un giovane infermiere professionale, viene assunto in un ospedale oncologico siciliano come addetto al reparto di Radioterapia.

È l’inizio della sua carriera e, purtroppo, di un calvario che lo condurrà a malattie e depressione e che solo 35 anni dopo, col lavoro dello Studio Guerra, vedrà finalmente riconosciute le ingiustizie subite.

Ma G.B. tutto questo non lo sa: ha studiato per fare l’infermiere, è il lavoro che ha sempre voluto, non fa domande e si limita a sgobbare, tanto più che quello in radiologia è un buon posto. Siccome è “esposto a radiazioni ionizzanti”, gli hanno riconosciuto “un’indennità di rischio” in busta paga e qualche lira in più fa sempre comodo.

Nessuno l’ha informato di quanto grande sia il rischio per cui lo indennizzano e d’altronde da giovani ci si sente indistruttibili. Non sa che il modo in cui lo fanno lavorare - senza guanti, occhiali, camici speciali, paratie fisse e mobili - quel rischio lo accresce esponenzialmente.

E così passano gli anni e ogni giorno G.B. assiste pazienti oncologici durante le terapie: vede tanto di quel dolore negli altri che non gli resta molto tempo per pensare a sé. E quando nel 1981 lo assegnano al servizio di Fisica Sanitaria per la sorveglianza delle radiazioni ionizzanti nelle varie strutture del distretto ospedaliero in cui lavora, non gli dispiace troppo. Non avrà più a che fare con la sofferenza ogni giorno: il suo lavoro adesso consiste nel misurarle, le radiazioni, quelle ambientali per lo meno, purtroppo non quelle che hanno già cominciato a logorargli l’organismo.

Un’Amministrazione che dimentica di amministrare

Di quelle non c’è traccia. Neppure nella sua documentazione sanitaria personale. Un po’ perché le visite semestrali cui dovrebbe essere sottoposto non gliele hanno mai fatte, un po’ perché nessuno della sua Amministrazione ha mai rilevato, o per lo meno annotato, le dosi di radiazioni che G. B. ha assorbito mese dopo mese e, tanto meno, gli ha concesso il riposo biologico compensativo che gli spetterebbe per legge o anche solo per buon senso. 

Nel 2004 la Procura di Palermo invierà all’ispettorato del lavoro una notizia di reato per tutte queste omissioni amministrative, ma sarà già troppo tardi, perché dal 1995 G. B. scopre che la giovinezza se n’è andata insieme all’illusione d’essere indistruttibili: gli hanno diagnosticato un carcinoma alla vescica
Ed è solo l’inizio.

Le recidive, le chiazze di alopecia su mani e gambe e la cataratta rendono ancor più salato il conto da pagare all’irresponsabilità dei suoi superiori. Un conto la cui valuta sarà depressione, labilità emotiva e inidoneità assoluta al lavoro

Certo, la Commissione Medica Ospedaliera gli riconoscerà la fin troppo ovvia dipendenza di queste patologie dai 20 anni di esposizione continuativa alle radiazioni e il Comitato per le Pensioni Privilegiate Ordinarie confermerà il nesso causale riconoscendogli il vitalizio dopo che, nel 2001, una Commissione Medico Legale dell’Azienda Sanitaria Locale l’avrà dispensato in quanto “inidoneo in modo permanente e assoluto a proficuo lavoro”. 

Non era lui ad essere inidoneo, ovviamente: lo erano le condizioni in cui aveva dovuto svolgere il proprio compito, lo erano i suoi responsabili che avrebbero dovuto salvaguardarne la salute.

Ma non dimentica i bilanci

E tale inidoneità sarà riconfermata quando, una decina d’anni dopo, la stessa Amministrazione - l’Azienda Ospedaliera e il Ministero dell’Interno - respingeranno la sua domanda per lo status e i benefici di Equiparato a Vittima del dovere.

Inutile rimarcarlo, i requisiti erano sotto gli occhi di tutti: nelle irregolarità, nelle omissioni, nelle documentazioni sanitarie mancanti. Per 20 anni, l’infermiere era andato in “missione”, come recita il testo di legge, e aveva svolto il proprio compito, già di per sé rischioso - e per questo indennizzato - in condizioni ambientali e operative rese ancor più estreme dall’inettitudine dei suoi superiori.

Ed è paradossale che un’Amministrazione che s’è macchiata di tante omissioni respinga la domanda per le Vittime del dovere sulla base di un presunto vizio procedurale, d’una omissione, appunto: la mancanza del parere del Comitato per la Verifica delle Cause di Servizio.

È paradossale non solo perché quella dipendenza era stata certificata a più riprese da comitati, commissioni e tribunali, non ultima la Corte dei conti nel 2012, ma anche e soprattutto perché il parere del CVCS avrebbe dovuto essere richiesto dall’Amministrazione stessa! 
L’azienda Ospedaliera aveva l’onere di inviare la documentazione al Comitato e non l’aveva mai fatto: d’altronde, come ampiamente attestato, quella documentazione non era stata neppure in grado di produrla e conservarla adeguatamente. Al momento di salvaguardare i bilanci, però, in un sussulto di efficienza, non mancava d’appigliarsi a un cavillo per respingere una domanda legittima e fondata.

Finalmente giustizia?

Ora, grazie al lavoro dello Studio Guerra, con una decisione che rende finalmente giustizia all’infermiere, il Tribunale del Lavoro di Palermo riconosce a G. B. i benefici che gli spettano.
Certo, l’Amministrazione potrà ricorrere in appello, ma c’è da augurarsi che in un lampo di consapevolezza, possa riconoscere costruttivamente le proprie lacune anziché peggiorare la propria posizione.

Anche perché la sentenza del Giudice del lavoro afferma che non basta la retorica dell’eroe, che ci vogliono i fatti: che gli infermieri, gli operatori sanitari e i medici, i vigili del fuoco, i militari e i poliziotti e tutti i servitori dello Stato non scelgono quel mestiere per il gusto di immolarsi. La loro non è una vocazione al sacrificio, ma piuttosto al servizio. E il minimo che ci si possa aspettare dalle Amministrazioni è che li pongano nelle condizioni di svolgerlo, quel servizio.