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Rita Atria: una storia dimenticata

Rita Atria

Paolo Borsellino per lei era lo stato che la proteggeva. morto il magistrato è morto anche lo stato.

Data di pubblicazione
26 Luglio 2017

Rita Atria è stata una testimone di giustizia solo grazie alla fiducia che riponeva in Paolo Borsellino. Si è uccisa una settimana dopo la strage di Via D’Amelio, perchè capí di esser rimasta sola e da soli non si puo’ sconfiggere la mafia. Una storia ignorata da molti quando Rita era in vita, una storia dimenticata da tanti anche dopo la sua morte. La ricordiamo 25 anni il suo tragico gesto.

Rita Atria è una testimone di giustizia, vittima indiretta della mafia. Nasce a Partanna (Tp) il 4 settembre 1974, muore a Roma il 26 luglio 1992. Figlia di Giovanna Cannova e don Vito Atria (ufficialmente allevatore di pecore, in realtà piccolo boss locale), Rita cresce in questo comune che da centro di pastori si trasforma nel tempo in un luogo di traffico di denaro proveniente dal giro della droga.

Negli anni dell’ascesa al potere dei Corleonesi, Partanna, Alcamo e altri comuni del Belice, fungono da scenario alle lotte per il potere tra vari clan rivali. Vito Atria è un mafioso vecchio stampo, fa parte di quella mafia che sussurra alla politica ma che non vuole sporcarsi le mani con la droga e questo, all’epoca, significa mettersi contro i Corleonesi che stanno invadendo il trapanese di “raffinerie” di eroina.

Da carnefici a vittime

Nel 1985, due giorni dopo le nozze del figlio Nicola con Piera Aiello, don Vito viene ucciso in un agguato, vittima egli stesso dell’ascesa insanguinata dei Corleonesi ai vertici di Cosa Nostra. Rita ha soltanto 11 anni, è una bambina. Alla morte del genitore, il fratello Nicola assume il ruolo di capofamiglia e l’amore e la devozione per quel padre mafioso, ma pur sempre padre, si riversa su quest’unica figura maschile a lei vicina e su Piera, sua cognata. Nicola è un pesce piccolo che con il giro della droga acquista rispetto e potere. Il loro rapporto si fa intenso e complice, al punto da trasformare la “picciridda” (bambina) Rita in una confidente. È in questi momenti di intimità fraterna che Nicola rivela tanti segreti: i nomi delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, il movente, chi comanda a Partanna, chi decide la vita e la morte. Lo stesso fidanzato di Rita, Calogero Cascio, un giovane del suo paese impegnato nella raccolta del pizzo, le dà l’opportunità di venire a conoscenza di fatti che non dovrebbe sapere.

 

Nel giugno del 1991 anche Nicola Atria muore in un agguato. La cognata di Rita, presente all’omicidio del marito, decide di denunciare gli assassini alla polizia, è il mese di luglio. Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita Atria resta a Partanna sola, rinnegata dal fidanzato (perché cognata di una pentita) e da sua madre, con cui non ha mai avuto un buon rapporto, che lamenta il perduto onore della famiglia a causa di Piera.

A pochi mesi di distanza (novembre), la diciassettenne Rita Atria, per dar voce al suo desiderio di vendetta, di rivalsa su quel “mondo” vigliacco in cui non ha scelto di nascere ma che sceglie di rifiutare, segue l’esempio di Piera chiedendo allo Stato giustizia per l’omicidio del padre e del fratello. La vendetta tanto desiderata, a poco a poco, si trasforma in “voglia di vedere altre donne denunciare e rifiutare la mafia”.

Le confessioni di una “picciridda”

È l’allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino (collaborano anche Alessandra Camassa, Morena Plazzi e Massimo Russo), a raccogliere le dichiarazioni di Rita Atria che, nel tempo, ha segnato sul suo diario le confidenze fattele dal fratello. Le deposizioni di Rita e Piera consentono alla giustizia di fare luce sugli ingranaggi che regolano le cosche mafiose del trapanese e della Valle del Belice, delineando gli scenari della faida sanguinaria – più di 30 omicidi – tra la famiglia Ingoglia e gli Accardo. Le loro dichiarazioni consentono, inoltre, di avviare un’indagine sul discusso operato dell’onorevole Vincenzino Culicchia, sindaco di Partanna per più di trent’anni.

 

Trasferita a Roma sotto protezione e falso nome, Rita vive isolata, costretta a frequenti cambi di residenza. Non rivedrà più la madre che la rinnega per l’affronto recato alla famiglia, nonostante il tentativo da parte di Borsellino di far sì che Giovanna accetti le scelte della figlia. Proprio con Borsellino, invece, Rita instaura un rapporto confidenziale. In “zio Paolo”, come comincia a chiamarlo, trova un uomo gentile con cui si sente al sicuro.

Luglio 1992

L’uccisione del giudice Borsellino (strage di via D’Amelio) avvenuta il 19 luglio del 1992 getta Rita nello sconforto. Il 26 luglio, una settimana dopo la morte dello “zio Paolo”, Rita Atria si suicida gettandosi dal settimo piano del palazzo in cui vive.

 

“Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto che ha lasciato nella mia vita. […] Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta”.

Il funerale di Rita si celebra a Partanna, né la madre né il paese partecipano alla commemorazione di questa giovane testimone di giustizia. A distanza di qualche mese la stessa Giovanna distrugge con un martello la lapide della figlia posta sulla tomba di famiglia, per cancellare la presenza scomoda di una “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri” che non è riuscita ad allinearsi ad una condotta d’onore. Per lungo tempo la memoria di Rita non trova pace, e per molto tempo la sua tomba non ha una foto che ricordi la “picciridda”, seppellita nello stesso cimitero insieme ad alcuni di quegli uomini che ha denunciato e che hanno un nome, una foto, un ricordo.


Ringraziamo Stefano Moraschini e Biografieonline per averci concesso la riproduzione di questo testo. E’ possibile consultarne il sito su http://biografieonline.it/biografia-rita-atria.