Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Un’amicizia sino all’estremo sacrificio
In questo ricordo di Pippo Giordano, il rapporto speciale che univa il vicequestore Antonino Cassarà con l'agente di scorta Roberto Antiochia.
Di Pippo Giordano
Tenterò di far comprendere che tra Ninni e Roberto non c’è stato solo e soltanto un rapporto tra il funzionario e l’agente, ma qualcosa di più che andava oltre l’attività investigativa. Quando Roberto è arrivato nella nostra sezione, diretta da Cassarà, subito è stato accolto con simpatia e se vogliamo con tenerezza: era giovanissimo. Un ragazzo alto, snello, un vero simpaticone che si è subito inserito nel gruppo. Egli è arrivato all’indomani dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, insieme a tanti altri colleghi, tra funzionari ed agenti. Alcuni di loro, dopo essere stati riservatamente scrutinati, sono stati costretti a lasciare la Mobile, mentre Antiochia, così come Beppe Montana, è rimasto. D’altronde non poteva essere diversamente: solo il personale che dava garanzia e dimostrava capacità investigative poteva far parte di quella che all’unisono era considerata l’università delle investigazioni d’Italia, ovvero la Squadra Mobile di Palermo.
Sono passati 27 anni ed ancora oggi ho ricordi nitidi di Roberto e Ninni, entrambi assassinati il 6 agosto del 1985. E, quando nel maggio del ’85 mi sono congedato per l’ultima volta da Cassarà, la mia premonizione si è poi avverata. Nel salutarci, dopo un caloroso e forte abbraccio (io lasciavo Palermo) ho detto a Ninni che da quelle finestre del condominio di fronte al suo, i killers potevano sparare in tranquillità. “Ninnì non mi piace questo posto” ho soggiunto. E sempre, in quel mese di maggio del ’85 commentando il cambio di dirigenza della Mobile, ho detto a Ninnì: “Questa Squadra mobile entro sei mesi sarà distrutta”. Non mi sono sbagliato, purtroppo! A luglio c’è stata la morte di Salvatore Marino, avvenuta proprio negli uffici della Mobile.
Sovente, passo metà del mio tempo a ricordare tutti i miei migliori amici che mi hanno lasciato e l’altra metà per comprendere i motivi della loro scomparsa. Non riesco a darmi risposte: non riesco a darmi pace. Prima di tutto perché mi è stato letteralmente impedito di raggiungere Palermo, dopo l’assassinio di Beppe Montana. Secondo, una domanda echeggia nella mia mente. Perché lo Stato ha permesso gli omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, innocenti bambini, donne indifese e semplici onesti imprenditori, per finire poi con le stragi del 92/93? Nel periodo della Mobile di Cassarà respiravamo il “nuovo” modo d’investigare: metodo innovativo che ribaltava la visione del fenomeno mafia. Per decenni lo strapotere di Cosa nostra veniva collocato e circoscritto nei confini siciliani. Mentre la lungimiranza di Ninni Cassarà, in raccordo con Giovanni Falcone, faceva sì che le proiezione della mafia sicula, oltrepassava lo Stretto, sino a solcare l’Oceano per raggiungere gli States. In quel periodo, Chinnici e Falcone potevano contare su un team d’investigatori di tutto rispetto: Cassarà, Montana della V°sezione investigativa antimafia e Francesco Accordino della sezione “Omicidi”. Due Sezioni che collaboravano gomito a gomito. Una meravigliosa stagione era iniziata nel contrasto a Cosa nostra. Finalmente, lo squarcio sulle nebulose attività pregresse contro la mafia, era avvenuto: un’aria nuova impregnava soavemente i nostri uffici e tutti eravamo consapevoli che la guerra contro Cosa nostra potevamo vincerla: era a portata di mano. Sognatori, illusi e niente più. Ma, in noi c’era un senso di disciplina a quelle che erano i dettami della Costituzione: innanzi tutto il dovere e la fedeltà. Purtroppo, ahimè, anche nelle nostre file i traditori tramavano contro di noi intessendo rapporti, certamente remunerativi, col nemico Cosa nostra. E, lo Stato non solo è rimasto sordo alle richieste mie e di Cassarà, per ottenere più mezzi e strumenti per contrastare Cosa nostra, ma, come le indagini hanno poi dimostrato, qualche importante uomo politico incontrava segretamente la mafia. Solo condoglianze, solo corone di fiori e qualche parole di circostanza seguivano i feretri di poliziotti, carabinieri e magistrati sino all’ultima dimora. Pupiate, nel vero stile italico. Ma noi andavamo avanti. E, la dimostrazione dell’alto senso dell’amicizia sta nel gesto di Roberto Antiochia che sino all’estremo sacrificio è stato accanto al suo “Capo” Ninni Cassarà. Io avrei dovuto e voluto essere con loro in via Croce Rossa a Palermo: luogo del loro martirio, ma mi è stato impedito.
Ninni e Roberto vi ricordo con affetto e non perdo mai occasione di raccontarvi ai ragazzi delle scuole medie e superiori: devono conoscere qual è stata la vostra amicizia. Devono sapere che avete pagato un alto prezzo per essere stati onesti, per essere stati davvero uomini che credevano nell’onore. Altro che gli appartenenti a Cosa nostra, che pomposamente si facevano e si fanno chiamare “uomini d’onore”, oppure coloro che per soldi si dono venduti ai mafiosi. La differenza tra voi e loro, sta in quel meraviglioso vostro sorriso che ogni giorno illuminava la nostra V° Sezione.
Pippo Giordano è “il sopravvissuto”. Ex ispettore della Dia, ha attraversato la stagione più dura della lotta alla mafia in prima linea. Senza pentiti e intercettazioni ma al fianco di alcuni degli ultimi eroi civili d’Italia. Con Paolo Borsellino il giorno dell’ultimo interrogatorio di Gaspare Mutolo; compagno di pattuglia di Lillo Zucchetto, agente “troppo sveglio” e quindi ucciso all’inizio degli anni Ottanta; con Beppe Montana nelle montagne madonite alla ricerca di Michele Greco, il “papa”, qualche mese prima che anche lui venisse ammazzato; con Ninni Cassarà e Natale Mondo alla squadra mobile di Palermo e con Giovanni Falcone lungo l’arco di tutta la sua camera, a Palermo o in giro per l’Italia alla ricerca dei soldi di Cosa nostra. Pippo Giordano la mafia l’ha respirata fin da piccolo, assistendo alle visite di suo padre al boss della zona, con tanto di baciamano e “servo suo sono”. Un elemento in più per diventare bersaglio della mafia. Giordano conosce la lingua ufficiale dei mafiosi, ne comprende i passaggi logici e ne anticipa le mosse. E così negli anni Novanta diventa il “custode” dei pentiti. Fra poliziesco e libro-in-chiesta, “Il sopravvissuto” è un racconto intenso, pieno d’umanità, scritto con il linguaggio della strada, che narra anche i retroscena e le ombre di quella zona di contatto fra mafia e pezzi di Stato.
Ringraziamo Pippo Giordano per averci concesso l’opportunità di condividere questo lavoro. L’articolo è stato pubblicato da 19luglio1992.com ed è consultabile direttamente sul sito della testata cliccando qui.