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Copilota dell'aeronautica con disturbo da stress post-traumatico riconosciuto equiparato a Vittima del Dovere

La chiamano anche “nevrosi da guerra” ed è forse la definizione più efficace. 

Certo, oggi sappiamo che non colpisce solo i soldati, che ne può soffrire chiunque abbia subito un trauma. Ma resta indelebilmente legata a chi più di altri affronta rischi estremi, il militare in guerra.
È ciò che descrive Omero quando racconta l’ira funesta di Achille oppure Shakespeare quando nell’Enrico IV ci descrive un Arrigo Percy spento, in preda agli incubi della battaglia e privo d’appetito.
Non è dunque una malattia recente, figlia di armi tecnologiche e guerre sofisticate. È antica quanto lo sono i conflitti e gli atti di eroismo degli uomini. Qualcosa che tutti noi possiamo istintivamente comprendere. Eppure la scienza ci ha messo un po’ a darle un nome.

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT)

Fu solo durante la guerra del Vietnam che le condizioni psicologiche di molti reduci sensibilizzarono prima l’opinione pubblica e poi gli psichiatri: dopo millenni era stato finalmente riconosciuto il Disturbo da stress post-traumatico. Ancora oggi, tuttavia, a cinquant’anni di distanza, le Amministrazioni sono ancora particolarmente diffidenti al cospetto di disturbi di natura psichica. D’altronde, mentre è facile dimostrare la causa di un trauma fisico, i disturbi mentali si trovano in un’area “grigia” che offre numerosi appigli alla parsimonia dei Ministeri attenti ai bilanci e lo Studio Guerra ha dovuto spesso avviare contenziosi giudiziari per farne accertare la dipendenza dal servizio, indispensabile per ottenere i rilevanti benefici di legge.

Dopo la guerra, la battaglia col Ministero

E così, può capitare che un navigatore, un co-pilota dell’aeronautica, dopo aver preso parte alla Guerra del Golfo nel ‘90 e ai conflitti nella Bosnia-Erzegovina nel ’95, dopo aver sorvolato sul proprio caccia Tornado zone nell’occhio del ciclone, in operazioni di ricognizione e bombardamento, dopo aver schivato missili terra-aria e offensive contraeree, dopo aver sostenuto turni massacranti a ciclo continuo, diurni e notturni, tornato a casa non sia più lo stesso. Che le Croci e le Medaglie al merito non bastino a cancellare gli incubi i cui protagonisti sono i civili innocenti che hanno perso la vita nelle operazioni cui ha preso parte. Che l’ansia e il panico non se ne vadano più.

Può capitare. È un rischio calcolato. I Ministeri, le commissioni mediche, tutti sanno che è un dazio che molti militari in prima linea finiscono per pagare.

E infatti all’Ufficiale dell’aeronautica viene riconosciuto il disturbo da stress post-traumatico, la dipendenza da causa di servizio e la quarta categoria di invalidità per la pensione privilegiata. Insomma, è egli stesso una vittima delle guerre cui ha partecipato. Eppure il Ministero della Difesa respinge la domanda di Equiparato a Vittima del dovere. Nonostante la Commissione Medica Ospedaliera per le Vittime del Dovere abbia confermato tutti i referti precedenti e gli abbia riconosciuto un 61% di invalidità, il Ministero rispedisce la richiesta al mittente.

Questione di sfumature

I motivi, purtroppo, sono sempre gli stessi. Nonostante la natura assistenziale delle provvidenze che il Legislatore ha previsto principalmente per gli appartenenti al comparto Difesa, Sicurezza e Soccorso Pubblico, con la finalità di riequilibrare il bilancio tra il servizio che essi compiono a favore della comunità e ciò che la comunità, in condizioni estreme, restituisce loro, i Ministeri preferiscono badare ad altri bilanci: quelli economici. E lo fanno appigliandosi alle solite sfumature terminologiche che già più volte abbiamo trattato: il concetto di “missione” e quello di “particolari condizioni ambientali e operative”.

Ancora una volta, quanto chiaramente espresso nel testo della norma di riferimento (art. 1, commi 563 e 564, L 266/2005) viene interpretato in modo restrittivo e strumentale. Così un ufficiale comandato a svolgere operazioni di volo radente, a rischio della propria vita, a condurre turni massacranti quantificati in oltre 190 ore di straordinari in zone di conflitto, non sarebbe stato esposto a rischi maggiori rispetto a quelli ordinariamente previsti dal proprio servizio. Non solo. Il militare avrebbe manifestato un disturbo, secondo una delle versioni proposte dal Ministero, pregresso e non dipendente dal servizio. Quello stesso militare riconosciuto idoneo dall’Amministrazione e anzi incaricato a svolgere missioni estremamente delicate a bordo di caccia sofisticati e costosissimi per i bilanci dello Stato, si scopre d’un tratto, ma guarda caso solo dopo tante missioni di guerra, che tale grave disturbo ce l’aveva da tempo!

Insomma, risulta evidente che le continue eccezioni mosse dalla Pubblica Amministrazione siano spesso capziose e finiscano per svilire in un colpo tanto la ratio della legge speciale a favore delle Vittime quanto il quotidiano servizio dei Servitori dello Stato. A volte, poi, ci si mettono anche i Giudici. Se il Tribunale in primo grado aveva dato ragione all’Ufficiale, in appello il collegio aderiva alla linea difensiva del Ministero della Difesa. Secondo loro se piloti un caccia Tornado è normale che tu partecipi a operazioni di bombardamento: in pratica, per chi indossa la divisa, il servizio ordinario è il conflitto, la guerra, la morte del nemico e il rischio costante della propria incolumità.

È un approccio illogico e anacronistico, oggi che sempre più, per fortuna, gli eserciti hanno funzioni deterrenti alla guerra, che sempre più, anche in zone delicate del mondo, sono considerati corpi di pace. Ed è ingiusto e irrealistico, oltretutto. Se i Servitori dello Stato accettassero di vivere in una condizione di guerra permanente “per contratto”, senza ulteriori tutele oltre l’equo indennizzo e la pensione privilegiata, allora dovrebbero guadagnare cifre astronomiche, ben lontane dai loro stipendi - quelli sì - ordinari.

Ma è soprattutto una errata interpretazione normativa. Nessuno contesta il tipo di mansione comandata. È “normale” che indossando la divisa io accetti anche il rischio di servizi che prevedano l’uso delle armi o della forza fisica. Ma in caso di invalidità riportate in quei contesti d’impiego “straordinario”, dovrebbe essere altrettanto “normale” riconoscere i benefici assistenziali previsti dalla speciale normativa.

Per fortuna, la giurisprudenza che abbiamo contribuito a formare ci dà oggi ragione e grazie al lavoro dello Studio Guerra è stata ribaltata la decisione della sentenza di appello favorevole al Ministero e riconosciuta la sussistenza dei requisiti affinché l'ufficiale possa essere dichiarato equiparato alle vittime del dovere. Anche se solo in Cassazione, al terzo grado di giudizio e dopo anni di battaglie giudiziarie. A conferma che se il diritto c’è, è giusto insistere per farlo valere.